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Principi e applicazione del constraints-led approach

15 Novembre 2024

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN SCIENZE E TECNICHE DELL’ATTIVITÀ SPORTIVA. TESI DI LAUREA DI SERENA CESARATO

Il Constraints-Led Approach è una metodologia d’insegnamento basata sui concetti della pedagogia non lineare e della psicologia ecologica-dinamica. Tale approccio rivendica l’importanza dei processi decisionali in funzione dell’ambiente negli sport situazionali; perciò, fonda la pratica su contesti di gioco che abbiano caratteristiche simili a quelle del gioco reale.

L’allenatore ha il compito di disegnare contesti e problemi di gioco che offrano nuove opportunità di azione, stimolino ricerca di soluzioni, scovate e scelte dagli allievi stessi. Anche detto approccio dei vincoli, tramite i cosiddetti constraints, prevede un design che moduli i gradi di libertà dell’ambiente per veicolare i giochi all’emergere dei comportamenti ricercati.

In questo studio, condotto attraverso metodologie di match analysis, si è voluto osservare come, modificando alcuni vincoli di compito di alcune esercitazioni, mutavano le risposte adattive degli allievi, senza modificare la struttura e le richieste del gioco stesso. 12 calciatori di 10 anni hanno praticato dei giochi di posizione e delle partite nelle quali sono state modificate la superficie di gioco, le dimensioni della porta e il numero di partecipanti.

I principali risultati mostrano che superfici di gioco maggiori e l’aggiunta di un jolly, favorivano il possesso della palla in termini di passaggi nei giochi di posizione, mentre nel contesto partita, per le dimensioni utilizzate, la modificazione delle porte e dell’area di gioco non hanno influito sul possesso della palla.

Sebbene ulteriori studi dovranno approfondire l’influenza di molti vincoli nel processi di apprendimento, possiamo concludere che, senza imporre soluzioni di movimento ma modificando le caratteristiche delle proposte, si manifestano comportamenti differenti.

Pertanto mantenendo al centro il giocatore, la scelta e la struttura reale del gioco stesso, è possibile veicolare l’emergere durante il gioco di alcuni comportamenti specifici piuttosto che altri.

Il riduzionismo e la teoria della complessità

Nel corso della storia sempre si è cercato di dare una spiegazione al mondo e a tutti i fenomeni che ci circondano. L’approccio tradizionale, noto come riduzionismo, specialistico o sistematico, sviluppato da Cartesio fa il suo ingresso nel pensiero scientifico nel XVII e XVIII secolo, ed è fondato sul metodo analitico. É un approccio metodologico e filosofico che si basa sul principio che i fenomeni possano essere spiegati attraverso l’analisi delle loro componenti. Il verbo “analizzare” etimologicamente deriva dal greco ana-lyein e si traduce letteralmente con “sciogliere un vincolo”.

È un modello di tipo meccanicistico: qualsiasi organismo o sistema è paragonato a una macchina smontabile e ricomponibile, per il quale conoscendo le singole parti si può risalire alla comprensione dell’insieme, in quanto questo non è altro che la risultante del loro assemblaggio. Su questo approccio si è basata e ancora si basa la ricerca scientifica, anche in ambito biologico e medico: l’essere umano, così come il corpo di ogni essere vivente, è smembrato in molteplicità di organi, tessuti, cellule e queste in elementi sub-cellulari, secondo una progressione che aspira a pervenire all’atomo.

Il riduzionismo ha contribuito a unificare diverse discipline scientifiche tramite la definizione del metodo sperimentale, facilitando la collaborazione tra ricercatori e la condivisione delle conoscenze. Questo rigoroso metodo si incarica di spiegare fenomeni attraverso regole oggettive che possano essere generali ed estendibili ad ambiti diversi con l’obiettivo di eliminare qualsiasi contaminazione soggettiva.

Alla base del metodo scientifico ci sono precise prerogative che devono essere menzionate. In primo luogo, per avere validità riconosciuta, l’esperimento deve poter essere ripetibile: si richiede la necessità che le misure effettuate a uno stesso oggetto, quando sono immutate le condizioni di misura, rimangano stabili. In seconda istanza è necessaria anche la riproducibilità, ovvero la possibilità di effettuare più volte il medesimo esperimento in modo puntuale da chiunque e in qualsiasi luogo.

Prerogativa fondamentale è anche un esplicito processo di causalità, secondo cui ogni fenomeno o effetto è spiegabile da, almeno, una causa. Questo principio alla base del determinismo ha il compito di individuare una spiegazione di tipo fisico per ogni fenomeno, tramite la catena delle relazioni causa-effetto, assumendo che i fenomeni naturali siano necessariamente determinati dalle condizioni iniziali.

Secondo questo rapporto, in natura, data una causa o una legge, può verificarsi soltanto un certo effetto o un particolare fenomeno, infatti, mantenendo stabili le condizioni iniziali il risultato non deve cambiare.

In generale, il riduzionismo ha portato allo sviluppo di modelli teorici estremamente importanti che hanno permesso di studiare fenomeni, fare previsioni accurate e guidare ricerche successive ma, nonostante il suo indiscusso utilizzo, negli ultimi decenni ha ricevuto diverse critiche. Secondo alcuni, in un universo teorico simile, la singola parte rischia di non essere colta come parte-di-un-tutto, ma come un’entità isolata che possa venire considerata autonoma e autosufficiente. In questo senso, il tutto perde il suo significato globale. Inoltre, ulteriori critiche sostengono che questo approccio può portare ad un’eccessiva semplificazione dei fenomeni complessi, tralasciando alcuni aspetti fondamentali, come il contesto sociale, culturale, ma anche le dinamiche psicologiche ed emozionali. La visione meccanicistica della natura, infatti, interpreta gli organismi viventi come semplici macchine e non considera tutti gli aspetti soggettivi che li rende unici. Ad esempio, il riduzionismo biologico, che cerca di spiegare i processi biologici in termini di chimica e fisica, non sarebbe in grado di spiegare fenomeni emergenti, come la coscienza e il comportamento.

Per colmare questo gap, a partire dagli anni ‘50 del secolo scorso si è cominciato a metterlo in discussione come unico modello accettato. Con l’opera Teoria generale dei sistemi, Bertalanffy (1971) pone le fondamenta di un nuovo modello, che viene poi proposto all’attenzione generale da Gregory Bateson e da Edgar Morin. Il modello sistemico pone al centro la globalità del sistema. Non è più centrale l’analisi di ciascun fattore nella sua singolarità ma l’interdipendenza tra gli elementi che compongono il sistema. La nuova teoria della complessità si basa proprio sullo studio integrale dei corpi e degli eventi e sulla loro unicità. Essa trova la sua applicazione in tutti gli ambiti, come la matematica, fisica, scienze, economia, ma anche umanistici, come la psicologia e la filosofia.
Prima di delineare i principi fondamentali di questo approccio è necessario, innanzitutto, distinguere i termini “semplice”, “complicato” e “complesso”.

Per sistema semplice s’intende un insieme composto da pochi elementi, indipendenti tra loro, meccanicamente assemblati. Possiamo pensare ad esempio ad una sedia, composta da quattro gambe, la seduta e lo schienale.

Medesima definizione hanno i sistemi complicati, tuttavia il numero di elementi è maggiore, come può essere un’automobile.

Più articolata è, invece, la terza. John Holland definisce “Un sistema complesso adattativo (SCA) un sistema aperto, formato da numerosi elementi che interagiscono fra loro in modo non lineare. Questi costituiscono una entità unica, organizzata e dinamica, capace di evolvere e adattarsi all’ambiente”. Le singole parti che lo compongono, quindi, sono interconnesse, comunicano e operano le une in funzione delle altre e si influenzano vicendevolmente. Esempi ne sono gli organismi viventi, gli ecosistemi, ma anche i mercati finanziari e persino le squadre di calcio.

Le proprietà dei sistemi complessi

Chiarita la definizione, cerchiamo di approfondire le caratteristiche dei sistemi complessi per comprendere come possiamo riconoscerli e di conseguenza intervenire in modo idoneo su di essi.
Primariamente, attributo degli oggetti semplici e complicati è la loro possibilità di essere smontati e rimontati. Come già anticipato essi sono meccanicamente costruiti e possono essere divisi e ri-assemblati n volte nelle loro parti costituenti ripristinandone sempre la funzionalità, operazione evidentemente non trasferibile sugli organismi. Se sezioniamo un essere vivente, le singole parti, oltre a non poter essere riassemblate, non possono sopravvivere separatamente, muoiono loro e con loro tutto l’organismo, così come se pensiamo di escludere un animale da un ecosistema, cade la catena alimentare: essi vivono grazie alla loro reciproca interazione. Nei primi, inoltre, l’aumento o la diminuzione di un elemento non si ripercuote sugli altri elementi. Infatti, se aumentiamo o diminuiamo il numero delle gambe di una sedia, quest’operazione non provoca nessun cambiamento negli altri pezzi, che svolgono la loro funzione allo stesso modo. Al contrario, un animale estraneo che approda in un ecosistema, romperà gli equilibri presenti in natura, potenzialmente creando grandi scompensi.

Quanto esposto finora viene riassunto nell’inciso “nei sistemi complessi l’insieme è più dalla somma delle singole parti”. Nel totale affiorano proprietà nuove che gli elementi separatamente considerati non possiedono. Esplicativo il caso dell’acqua: se idrogeno e ossigeno isolati in natura si trovano allo stato gassoso, quando si legano a determinate temperature, ne risulta lo stato liquido o solido. Queste nuove proprietà che affiorano sono definite emergenti, in quanto emergono, appunto, dall’interazione delle parti elementari costituenti. Se prendiamo in esame il cervello, nessun neurone singolarmente è autosufficiente dal punto di vista funzionale, ma, dalla connessione di miliardi di neuroni, emergono fenomeni complessi come coscienza, linguaggio, pensiero ed emozioni.
In questi sistemi, di conseguenza, anche se conosciamo le caratteristiche dei singoli componenti, non si possono predire con certezza le proprietà del sistema finale. Si esplicita, così, un altro concetto fondante questa teoria, la non-linearità. Una relazione è non-lineare quando non è possibile descriverla con sequenze e funzioni lineari e non è dominante un fattore più degli altri.
Se nel mondo deterministico della fisica classica è assodato che piccoli cambiamenti producano solo piccoli effetti e grandi cambiamenti producano solo grandi effetti e che ad una causa sia associato un unico effetto (mono-stabilità), il comportamento di un sistema complesso non è prevedibile, anche conoscendo dettagliatamente gli input che perturbano il sistema. L’output, prima di tutto, non è proporzionale all’impulso, ci può essere più di una risposta allo stesso stimolo e, ancor più, in molti casi tale output non è prevedibile, poiché può produrre molti effetti (multi-stabilità). Un microscopico impulso può creare una perturbazione esponenzialmente grande e altrettanto facilmente può essere vero il contrario, nel quale forti interventi esterni possono non stravolgere un sistema, che si adatta a tali influenze. Questa proprietà venne teorizzata da Eduard Lorenz nel 1963, il matematico e meteorologo che coniò il termine “butterfly effect”. Con l’intento di creare un modello matematico per la simulazione di eventi metereologici, un giorno, per comodità, arrotondò un valore decimale da inserire nell’equazione di predittività. Convinto non apportasse rilevanti variazioni per il suo studio, inserì il valore di 0,506 piuttosto che 0,506127. In tal modo, però, egli ottenne situazioni metereologiche completamente diverse, tanto che, laddove prima spendeva il sole, successivamente si formò un potente uragano. Per esporre questo fenomeno, comunemente conosciuto come effetto farfalla, estremizzando, viene utilizzato il metaforico e famoso esempio secondo cui un apparente e insignificante evento come battito di ali di una farfalla in Messico può causare un catastrofico uragano in California un mese dopo.

La stabilità dei risultati che si ricercava prima, comprese queste proprietà, non può assumere più la stessa importanza, infatti, il non determinismo e l’imprevedibilità ci permettono di muoverci solo entro i confini della probabilità e spesso ci si cimenta in nuovi risultati non attesi.
I sistemi complessi sono, inoltre, aperti, ovvero sono in grado di interagire con l’ambiente attraverso lo scambio di materia, energia o informazioni, e dinamici, ovvero in grado di rispondere alle perturbazioni e di adattarsi ai mutamenti che avvengono in esso. Facile pensare al comportamento di un uccello che, in pieno volo, si adatta alle correnti del vento o, più emblematico, l’adattamento genetico delle specie nell’evoluzione millenaria. Ogni elemento di ciascun sistema agisce spinto da regole relativamente autonome per tendenze spontanee all’adattamento ai cambiamenti e non sotto un comando esterno: dalle azioni di ciascuno, emerge un comportamento collettivo coordinato. In merito al volo degli stormi di uccelli, numerosi sono stati gli studi per comprendere la capacità comunicativa e organizzativa di questi animali per riuscire a creare i disegni coordinati che osserviamo in cielo. I risultati più attendibili hanno mostrato come non esista uno schema di movimento prefissato o un leader che imponga i movimenti, ma che tale coreografia sia il risultato proprio della somma dell’agire posto in atto dai singoli uccelli. Craig Reynolds, un ingegnere informatico californiano, ha provato a ricreare al computer un simulatore di uno stormo per studiarne il comportamento. Egli impose ai finti animali solamente due regole semplici: «non andare a sbattere contro altri uccelli» e «non allontanarti troppo dal gruppo». Una volta lasciati liberi nel mondo virtuale gli uccelli informatici si comportavano in modo analogo a uccelli reali. Essi avevano formato uno stormo che si muoveva armoniosamente sullo schermo, e nel momento in cui incontrava ostacoli, si divideva in gruppi per evitarli, per poi ricongiungersi non appena essi venivano superati. Il complesso comportamento sociale era emerso spontaneamente dall’applicazione del set di semplici regole, senza che fosse programmato o imposto da Reynolds. Il termine bottom-up, o dal basso all’alto, è stato coniato per descrivere questi sistemi nei quali sono le parti elementari che determinano il comportamento globale, tramite il loro agire individuale, come nell’esempio appena riportato. Tale approccio si contrappone all’organizzazione top-down nel quale i processi decisionali avvengono all’apice della gerarchia e poi vengono comunicati ai singoli elementi, come si pensava avvenisse nella maggioranza dei sistemi che incontriamo nella quotidianità. Rafforziamo, inoltre, l’idea che, non per forza, comportamenti complessi abbiano radici complesse.


Il riduzionismo e la complessità nello sport

L’allenamento sportivo, da quando è diventato una scienza, ha sempre fatto riferimento ai procedimenti scientifici. Si trattavano tutti gli sport, individuali o di squadra, come dei sistemi complicati, dove la protagonista era la prestazione, che veniva descritta e implementata grazie a studi sperimentali, analisi di dati e statistiche. La standardizzazione dell’ambiente era, come antecedentemente esposto, una prerogativa per poter definire uno studio scientifico come tale. Pertanto, veniva accreditato solo ciò che potesse essere numerato e descritto attraverso dei dati. Siccome la credenza era che il miglioramento seguisse un processo lineare, si ricercava lo stimolo che comportasse la risposta maggiore all’aspetto che si desiderava allenare, e si riteneva che la somma di stimoli conducesse alla migliore performance.
L’approccio sistematico ha guidato la programmazione degli allenamenti e trova la sua espressione nella metodologia di allenamento tradizionale. Essa si struttura in “blocchi” separati per le diverse capacità: fisica, tecnica, tattica e a cascata ognuna nei propri addendi. I primi studi scientifici in ambito motorio si sono occupati proprio di sviscerare e classificare la pratica sportiva nei suoi componenti fondamentali, e, solo successivamente di comprenderne dettagliatamente i principi di adattamento all’allenamento. La prima classificazione scientificamente accreditata fu nel 1967 da parte di Gundlach, che divise le capacità motorie in condizionali, coordinative e strutturali elastiche. Le capacità condizionali secondo la classificazione di Blazquéz del 1990 sono forza, resistenza, velocità e flessibilità, mentre le sette capacità coordinative speciali sono equilibrio, differenziazione, trasformazione e accoppiamento, orientamento, ritmo, reazione e combinazione, e, infine, le capacità strutturali elastiche sono mobilità e elasticità muscolare. In relazione all’attività praticata viene, chiaramente, sviluppata una capacità piuttosto che un’altra. Lo sviluppo di ciascuna area porta il suo contributo al miglioramento della prestazione riferendosi, appunto, a un processo lineare, grazie alla somma dei miglioramenti. Venne sottoposta a questo processo di analisi anche la tecnica. I gesti vennero tipicamente scomposti in sottomovimenti e allenati minuziosamente fino all’utopistico raggiungimento dell’esecuzione perfetta. La tattica, tipicamente, veniva considerata separatamente alle precedenti e allenata nella terza parte dell’allenamento. Lo sviluppo indipendente di ciascuna area, non privo di efficacia se il problema è circoscritto a un ambito ristretto, si rivela tuttavia sempre meno adeguato all’aumentare della complessità dell’insieme. Sarà sicuramente più efficace per prestazioni closed skills svolte in ambiente stabile ma, nessuna di esse è, in ogni caso, imperturbata. Se immaginiamo, ad esempio, una prestazione di getto del peso, l’ambiente è più costante e i fattori che intervengono sono minori rispetto a una partita di calcio, che è un gioco collettivo e di opposizione, ma non sono comunque tutti controllabili e governabili, considerando la sola presenza di tifo, le condizioni meteorologiche o le condizioni mentali dell’atleta.
Lo sviluppo e l’affermazione della teoria dei sistemi complessi e della teoria ecologica hanno man mano influenzato anche l’ambito della pratica sportiva. Nei sistemi sociali le interazioni tra i componenti, che nel nostro caso sono i giocatori, sono talvolta pianificate, prescritte e progettate da un agente esterno, l’allenatore, nel set di regole di condotta codificate preventivamente. In alcuni giochi, però, si manifestano comportamenti che sorgono spontanei dall’auto-organizzazione e, che spesso, non sono previste o, addirittura, prevedibili.

Possiamo prendere in esame una squadra di calcio, che non solo è un sistema complesso, ma, più precisamente, è un sistema complesso composto di sistemi complessi, i singoli giocatori. La squadra perde la sua anima se la si intende come la mera aggregazione di 11 giocatori, ancor più pensando alla natura del gioco stesso, che, per definizione, è collaborativo. Il comportamento collettivo emerge dall’interazione dei giocatori della stessa squadra e oppositiva con i componenti della squadra avversaria. I processi decisionali durante una competizione, come intuibile, avvengono tramite il metodo bottom-up, ovvero dalle scelte dei singoli giocatori, che, congiuntamente contribuiscono al gioco di squadra. Il risultato non è assolutamente prevedibile e determinabile, poiché influenzato da infiniti fattori. Anche se si ipotizzasse di codificare le giocate della propria squadra, le reazioni degli avversari sono imprevedibili, comportando necessariamente un continuo processo di azione-reazione e adattamento.


Si è cominciato, allora, a intendere la performance sempre più come un processo complesso che coinvolge l’atleta come individuo, l’ambiente e la loro interazione e non solo come il risultato una somma di stimoli somministrati, dettati dagli esiti delle ricerche. Grande importanza cominciò a rivestire anche il lato psicologico, nella cura degli aspetti mentali nell’affrontare allenamenti e gare.

Se l’obiettivo della ricerca era osservare un outcome generalizzabile per un gruppo di individui, in questo nuovo approccio si considera l’unicità del soggetto nella sua risposta, non solo agli stimoli, ma in relazione al contesto e alla situazione. Variare il contesto per offrire opportunità di apprendimento, spesso individualizzate, sarà la chiave per stimolare il miglioramento di ciascun allievo.


Le teorie dell’apprendimento motorio

Ogni attività sportiva si basa sull’utilizzo di abilità motorie (skills), ovvero gesti più o meno complessi che vengono appresi e automatizzati attraverso la pratica. La padronanza di tali gesti consente di raggiungere lo scopo in tempi ottimali, con massima possibilità di riuscita e minimo dispendio di energia mentale e fisica. L’apprendimento di tali abilità viene definito come “un insieme di processi associati con l’esercizio o l’esperienza che determinano un cambiamento relativamente permanente nella prestazione o nelle potenzialità di comportamento” (Schmidt e Lee, 2014). Esso si verifica all’interno dell’atleta, e viene osservato in base a cambiamenti nel comportamento che l’atleta esprime, ovvero nella prestazione.
Gli approcci teorici che attualmente vengono utilizzati per spiegare controllo e apprendimento motorio sono quello cognitivista, basato sui processi che avvengono a livello del sistema nervoso centrale, il quale contiene già programmi motori che guidano l’azione, e l’approccio ecologico, che considera la percezione e l’interazione con l’ambiente come fulcro nella programmazione motoria.

La psicologia cognitiva

Il primo approccio per spiegare controllo e apprendimento motorio, fu elaborato a partire dagli anni ’40 e si sviluppa all’interno di una prospettiva cognitivista. Esistono schemi motori preesistenti e immagazzinati nella memoria che guidano il movimento, per questo il fulcro della programmazione ed esecuzione dei movimenti si trova a livello del SNC. I processi mentali sono spiegati mediante la metafora del computer: la mente umana sarebbe analoga a un sistema che riceve, processa e immagazzina informazioni secondo una serie di regole su contenuti informativi, equivalenti ai dati elaborati da un computer. L’apprendimento di nuovi movimenti sarebbe paragonabile all’aggiornamento del software. In generale, questo approccio considera tre stadi successivi e distinti sottostanti la realizzazione di un movimento: percezione, presa di decisione, ovvero scelta della risposta motoria, e programmazione della risposta. Adams (1971) formulò la teoria del controllo motorio a circuito chiuso, nel quale espone come, dopo l’inizio del movimento, l’elaborazione delle informazioni provenienti dagli organi di senso e dai propriocettori consente al sistema di correggere il movimento all’atto dell’esecuzione. Esiste uno schema motorio per ogni azione, composto di una traccia mnestica, responsabile dell’inizio dei movimenti, e una traccia percettiva, che consente di aggiustare il movimento al fine di far fronte alle esigenze mutevoli dell’ambiente. La valutazione e correzione avviene durante l’attuazione stessa in relazione ai feedback ottenuti, per questo più lungo è il tempo di esecuzione, più ampia la possibilità di sfruttare questi feedback.

Il limite di questa teoria, evidentemente, riguarda i movimenti più rapidi della conduzione degli impulsi nervosi, poiché non sarebbero suscettibili di correzione durante l’esecuzione. La quantità di schemi motori che dovrebbero essere contenuti nella memoria, inoltre, sarebbe troppo grande rispetto alla sua capacità e, infine, come giustificare l’esecuzione di movimenti nuovi, mai sperimentati prima.

Schmidt propose La teoria dello schema o controllo motorio a circuito aperto (Schmidt e Wrisberg, 2008). Egli teorizzò il concetto di programma motorio generalizzato: una rappresentazione di una classe di azioni, cioè un gruppo di risposte che posseggono le stesse caratteristiche, nel quale la sua flessibilità consente di adattarlo in modo da produrre varianti di pattern motorio in relazione alle richieste dell’ambiente.

A differenza del precedente programma motorio, non necessita obbligatoriamente un feedback, perché il sistema centrale è già in grado di specificare tutte le informazioni necessarie prima dell’esecuzione del movimento, in riferimento a quali muscoli contrarre, in quale ordine, con quale forza e per quanto tempo. Il programma motorio viene perfezionato e consolidato attraverso la memorizzazione dei parametri del movimento (forza, durata, eccetera), sulla base delle differenze che il soggetto riscontra tra fine desiderato e risultato conseguito.

Queste informazioni consentono al soggetto di stabilire, nel corso delle esecuzioni, riferimenti gradualmente più raffinati di individuazione e correzione dell’errore. La ricaduta applicativa più significativa della teoria dello schema riguarda la rilevante importanza che assume la variabilità e la quantità di pratica: maggiori sono le variazioni dei parametri applicati ad un programma motorio generalizzato, più forte diventa lo schema d’azione sottostante.

I modelli di insegnamento e miglioramento, allora, intervengono principalmente tramite la scomposizione del gesto e il graduale aumento della difficoltà del compito, che viene eseguito in ambienti stabili. Tecniche come dimostrazioni visive e feedback, principalmente a focus interno, sono gli strumenti di supporto utilizzati alla ricerca del gesto teoricamente perfetto (Adams, 1971; Davids et al., 2008).

L’approccio cognitivista, che considera il meccanismo di controllo centrale come unico responsabile dell’esecuzione di un movimento, non tiene conto della variabilità dei fattori esterni all’organismo, che governano in realtà la nostra quotidianità.

La psicologia ecologica dinamica

A partire dagli anni ’80 si è sviluppato l’approccio ecologico, rivendicando la centralità delle caratteristiche ambientali e l’interazione dell’individuo con esse. L’organismo e l’ambiente formano una relazione reciproca e sono continuamente regolati l’uno con l’altro.
La teoria dei sistemi dinamici, sviluppata da Bernstein e Gibson, considera la coordinazione come il risultato di un dialogo in tempo reale tra gli organi centrali del controllo motorio, periferici e l’ambiente.

Essi sostengono che sono le condizioni dell’ambiente che offrono opportunità di azione, che determinano che cosa una persona possa fare in un certo momento e in una data situazione. Percezione e azione sono quindi strettamente accoppiate e devono essere comprese insieme, in quanto una è essenziale per l’altra (Bootsma, 1989).

Al sistema nervoso centrale viene attribuita, soprattutto, la funzione di scegliere quale soluzione attuare, ad esempio, calciare una palla, e sarebbe poi l’interazione percezione-azione a determinare esattamente come questo comando generale debba essere messo in atto, a livello del sistema nervoso periferico.

La natura ecologica del controllo motorio è la principale opera di Gibson (1979), nella quale egli espose tutti i concetti di questa nuova teoria. Nella programmazione del movimento dal punto di vista neuro-motorio, egli rovescia completamente il rapporto individuo-ambiente a favore di quest’ultimo. Il processo cognitivo, che include percezione e azione, è un unico processo in cui è necessaria la componente attiva del soggetto per produrre un fenomeno percettivo.

L’agente raccoglie alcune informazioni specifiche dell’ambiente attraverso i canali percettivi, visivo, uditivo, ecc., che sono rilevanti per la sua azione, guidandolo nel suo adattamento e nel raggiungimento dei suoi scopi.

Questo, però, non è percepito in termini di proprietà oggettive come distanze o angoli, o in termini di aspettative e rappresentazioni mentali legate al risultato di un’azione motoria, ma le proprietà dell’ambiente percepite sono tutte ridimensionate alle capacità dell’individuo, in termini di ciò che può fare in esso e con esso. Per Gibson, infatti, il soggetto è in grado di percepire solo ciò che l’ambiente gli permette di fare, in base alle proprie capacità fisiche, motorie, secondo la sua età, struttura e livello di esperienza.

Egli utilizzò il termine “affordance” proprio per racchiudere questo concetto: un’affordance è la relazione epistemica tra l’agente e il suo mezzo, ovvero, non altro che opportunità per l’azione che l’ambiente offre al soggetto che ne interagisce. Sostanzialmente, Gibson sostiene che i movimenti avvengono sempre “in funzione dell’ambiente”, non “nonostante l’ambiente” e, di conseguenza, non possono mai essere identici.


In un semplice esempio pratico legato allo sport, possiamo dire che è la situazione che suggerisce come meglio agire in un dato momento, per esempio, nel calcio se sia più efficace tirare, dribblare, passare o protegge la palla. Il nostro comportamento, a sua volta, modifica l’ambiente in un rapporto dinamico circolare e, ancora, tutto torna all’inizio del ciclo, che si fonda sulla capacità dell’organismo di cogliere le nuove affordances dell’ambiente.

Compreso che i comportamenti emergono dalla relazione con l’ambiente, modificando l’ambiente possiamo influenzarli, logicamente. “Constraints” sono i confini o le condizioni che si presentano in un dato momento e che, come risultato della loro interazione, provocano l’auto-organizzazione del sistema (Renshaw et al., 2019).

Tale concetto è utilizzato in diversi campi scientifici, ad esempio matematica, fisica, informatica, biologia e linguistica, e si riferisce a condizioni limite, limitazioni o caratteristiche di progettazione che applicano restrizioni ai gradi di libertà di un sistema, indicando le traiettorie che il sistema può presentare. I vincoli possono esistere all’interno dell’organismo, dell’ambiente o del compito che viene svolto (Newell, 1986). Questa (ri-)organizzazione del sistema avviene senza istruzioni o direzioni esterne, bensì in modo spontaneo e non-lineare, proprio perché è risultato dell’interazione del soggetto con l’ambiente.

La manipolazione di questi vincoli può aiutare le persone ad esplorare altre possibilità di azione (affordances) che, fino ad allora, erano sconosciute o meno frequenti per loro (Canton et al., 2022). Quest’ultimo concetto, anche noto come paradosso della creatività, sottolinea come, tendenzialmente, siamo portati ad agire con movimenti che già conosciamo e sappiamo essere efficaci, piuttosto che esplorare nuove soluzioni, inizialmente meno remunerative seppur più funzionali a lungo termine.

The constraints-led approach

Il concetto di vincoli è usato in diversi campi scientifici, come matematica, fisica, informatica, biologia e linguistica e si riferisce a condizioni al contorno, limitazioni o caratteristiche di progettazione che applicano restrizioni ai gradi di libertà di un sistema, indicando così le traiettorie che il sistema può assumere. Sia in ambito scolastico che sportivo è stato approfondito il ruolo che assumono codesti vincoli nell’apprendimento. È stato così delineato un nuovo approccio che, tenendo nello sfondo i principi della teoria dei sistemi complessi e dell’approccio ecologico, si focalizza sull’importanza dell’ambiente e dell’utilizzo dei constraints per guidare un apprendimento più efficace. Il constraints-led approach (CLA), che letteralmente si traduce con “approccio guidato dai vincoli”, appunto, prevede un approccio olistico e individuale, considerando le interazioni tra diversi “vincoli”: il soggetto, l’ambiente e il compito. L’interazione tra la dinamica intrinseca e i vincoli esterni del sistema produrrà l’emergere di soluzioni individuali e modelli motori coordinati che l’allievo è sfidato a sperimentare attraverso la pratica variabile e per tentativi ed errori. Ci saranno una varietà di modi per raggiungere l’obiettivo tattico e l’esperienza dell’atleta sarà caratterizzata dall’efficacia della soluzione trovata per raggiungerlo con successo o meno.
Considerando i punti cardine di questo approccio olistico, si è cercato di categorizzare tutti i tipi di vincoli in aree da cui il soggetto è influenzato non solo durante la sua crescita, ma anche nella quotidianità. La classificazione di Newell (1986), la più accreditata finora, distingue tre categorie di constraints: organismici, ambientali e legati al compito. I vincoli organismici sono legati alle caratteristiche personali di ciascun individuo e sono classificati come strutturali o funzionali. I primi tendono a rimanere relativamente costanti nel tempo, ad esempio le caratteristiche antropometriche, la composizione corporea, l’architettura muscolare, mentre i secondi hanno una velocità di cambiamento maggiore. Si tratta di condizioni fisiche momentanee, come fatica, percezione dello sforzo, battito cardiaco o concentrazione di lattato ma anche motivazione, esperienze e apprendimenti precedenti, emozioni e aspirazioni. Tali vincoli sono condizionati dal contesto sociale, da capacità di apprendimento, maturazione o ulteriori esperienze sportive e non, ovviamente in relazione al tempo vissuto, che più o meno rapidamente, può incidere degli allievi. Vanno considerati con attenzione perché sono estremamente personali e unici e, se i secondi sono manipolabili, i primi sono prerogativa da conoscere per la stesura e lo svolgimento di un percorso di insegnamento.

I vincoli ambientali sono esterni all’organismo e sono più globali. Possono consistere in variabili fisiche che si incontrano in natura, come la luce ambientale, la temperatura o l’altitudine, e caratteristiche sociali come i valori storici, culturali e sociali, come credenze e costumi di una popolazione. Sono valori da attenzionare, soprattutto quando ci si relaziona con persone di altre culture o quando si uniscono differenti culture in un gruppo squadra, perché alcuni vincoli o richieste possono essere interpretate e possono dar luogo a reazioni distinte. Particolare prudenza va posta nell’area della comunicazione, verbale, nella scelta del linguaggio, e non verbale con i gesti, soprattutto in riferimento al contatto interpersonale.

La terza categoria è quella dei vincoli specifici al compito. Questi ultimi sono solitamente definiti dalle caratteristiche del gioco o dal compito da eseguire: ci si riferisce ad attrezzi, caratteristiche del campo, numero di compagni e avversari coinvolti e obiettivi da raggiungere. I constraints legati al compito possono essere attuati tramite regole e istruzioni, che possono semplicemente limitare il compito dicendo, per esempio, ciò che è proibito, o specificare le dinamiche di risposta, come prescrivere la soluzione di azione o la coordinazione del gesto. Ad esempio, un allenatore può assegnare un calcio di rigore, ma non imporre le soluzioni di questo compito, cioè la direzione del calcio, il tipo di tiro, eccetera, o può, al contrario, in una regola richiedere l’esecuzione di una serie di abilità o skills. Pertanto, i vincoli di attività possono essere suddivisi in specifici, quando la richiesta specifica la forma di movimento o l’azione da eseguire, e non specifici, quando non lo specificano.

Il CLA sostiene un approccio hands-off, in cui l’allenatore progetta l’ambiente e dirige l’apprendimento manipolando i vincoli, piuttosto che tramite un sovra uso di istruzioni prescrittive. Ciò non significa che non vengano dati feedback, ma essi vengono utilizzati soprattutto per rinforzare positivamente il comportamento che ci si era proposto di far emergere, piuttosto che illustrare agli allievi la soluzione. Per questo, non sarà necessario indicare all’atleta un gesto motorio teoricamente ideale, ma si cercherà di creare compiti e contesti in cui l’abilità tecnica possa risolvere le situazioni in costante cambiamento. Inoltre, invece di memorizzare un gran numero di regole e sequenze di azioni, gli atleti devono sviluppare la loro autonomia e capacità di percepire vincoli informativi e adattare le loro azioni secondo ciò che presenta l’ambiente.

I vincoli legati al compito

La letteratura conta numerosi studi su come la manipolazione dei task constraints possa avere un impatto significativo sui comportamenti e sull’apprendimento dei giocatori. Di seguito ne sono presentati alcuni come esempio per mostrare l’enorme potenza di tale strumento.

Oppici et al. (2018) hanno studiato come l’utilizzo di una palla differente da quella regolamentare nel gioco del calcio, possa avere un impatto sulla capacità percettiva dei giocatori. Infatti, essi hanno dimostrato che l’uso di un altro tipo di pallone per l’allenamento nel calcio ha migliorato la prestazione di passaggio, e, specificamente, ha anche portato a cambiamenti nella sintonia percettiva. Questi risultati sono stati supportati da un precedente lavoro empirico, dimostrando che il coinvolgimento dei giocatori di calcio in pratiche di futsal può migliorare le prestazioni calcistiche successive e la padronanza delle abilità (Travassos et al., 2017).

Un altro recente studio sull’hockey su prato ha dimostrato che l’uso di una palla differente ha portato a un miglioramento significativo dei gesti tecnici di base (Brocken et al., 2020). Più specificamente, gli autori hanno dimostrato che tali attrezzature modificate hanno aumentato la variabilità del movimento degli studenti, alla base del miglioramento delle loro abilità. Questa modifica non solo ha migliorato le prestazioni attuali dei giocatori, perché una palla più grande era più semplice da padroneggiare, ma ha promosso anche la ridondanza dell’esecuzione del movimento.

Sempre in merito alla manipolazione dei vincoli di attività, Limpens et al. (2018) hanno dimostrato come la modulazione dell’altezza della rete da tennis abbia un impatto immediato sul comportamento dei giocatori. I risultati hanno mostrato che l’abbassamento della rete da 0,65 m a 0,52 m ha portato i giocatori ad adottare uno stile di gioco più offensivo, senza un aumento del numero di errori. Le reti più basse, inoltre, hanno anche portato a una percentuale maggiore di primi servizi riusciti.

Mateus et al. (2019) hanno studiato, invece, come l’aggiunta di due ulteriori canestri ad un campo di gioco regolare, posizionati uno accanto all’altro, influenzi prestazioni tecniche e posizionali dei giocatori di pallacanestro. I risultati mostrano che le partite con quattro canestri hanno favorito l’emergere di comportamenti più individuali. Più canestri hanno aumentato il numero di canestri e dribbling realizzati per giocatore. Tuttavia, si osserva una diminuzione di passaggi eseguiti e, di conseguenza un minor numero di azioni collettive. I due canestri extra offrivano maggior possibilità di tiro, inducendo a un maggior individualismo dei giocatori, che tendevano a trattenere la palla piuttosto che passarla. Tali risultati possono essere interpretati immediatamente con accezione negativa da molti allenatori che ricercano l’esasperato gioco di squadra, ma la diminuzione del numero di passaggi non significa che tale sia un vincolo non funzionale: tutto dipende dall’obiettivo che ci si pone di raggiungere. In questo caso, più canestri promuovono l’emergere di più dribbling e tiri, favorendo la pratica di tali gesti e l’esplorazione di soluzioni a questa situazione di gioco, mentre, se volessimo far emergere comportamenti più collettivi, sicuramente dovremmo ricorrere ad altri vincoli.

Infine, riportiamo uno studio interessante in merito alla creatività motoria. Moy et al (2024) hanno voluto indagare se l’aggiunta di un secondo servizio durante una partita di pallavolo avrebbe incoraggiato i ragazzi delle scuole superiori a usare il loro primo servizio per esplorare le loro capacità di movimento, rispetto al gioco con le norme previste dal regolamento. Il vincolo che ammetteva la possibilità di un secondo servizio è stato scelto per promuovere il coraggio a sperimentare nuove battute ed esplorare nuove caratteristiche del gesto in modo sereno, riducendo il limite dato da emozioni come la paura, l’ansia, la percezione della pressione e/o la mancanza di fiducia. Mentre l’esplorazione è stata postulata come una facilitazione dell’apprendimento, essa è stata anche associata a un ridotto successo delle prestazioni nel primo servizio (ad esempio, Seifert et al. 2017; Komar et al. 2021) e aumentati livelli di variabilità (Seifert et al. 2017). Come riportato dai giocatori, l’aggiunta di un secondo servizio ha cambiato le loro intenzioni, spingendoli a tentare servizi più strategicamente impegnativi, come ad esempio, battere verso un bersaglio particolare, oltre a incoraggiarli a tentare di colpire la palla con maggiore potenza e/o eseguire un servizio topspin in salto più complesso. Collettivamente, questo si è manifestato come un aumento dell’8,5% della velocità di servizio e un aumento del 76,6% del numero di servizi topspin in salto che sono stati tentati. L’accuratezza del primo servizio è diminuita significativamente, dal 79,7% nel gioco regolamentare, al 69 % nel gioco modificato, suggerendo proprio il loro coraggio a osare ed esplorare nuovi servizi più complessi. Anche se, chiaramente, la percentuale di successo diminuisce, ciò non significa che sfavorisca l’apprendimento, anzi, al contrario, stimola la creatività. I giocatori sono supportarti nell’errore per esplorare nuove possibilità di movimento che, altrimenti, sarebbero stati frenati nell’intraprendere. A lungo termine, se stimolati e rafforzati ancora nei successivi giochi, tali gesti più complessi potranno aumentare le competenze di ciascuno.

Da non sottovalutare, inoltre, il valore che viene riconosciuto all’errore. Permettere agli alunni di prenderne dimestichezza e praticare con l’accettazione dello stesso è un punto fondamentale e inevitabile nel processo di apprendimento. I giocatori, infatti, grazie a questo vincolo, seppur abbiano momentaneamente diminuito la percentuale di riuscita, hanno aumentato il potenziale livello futuro di competitività.

In conclusione, se i primi studi citati concludono che la palla, o l’attrezzatura in generale, possono essere modificati per influenzare il processo di apprendimento, anche molti altri vincoli di attività possono anche essere manipolati nel gioco. Regole di punteggio, numero di giocatori, dimensioni del campo sono solo alcune delle infinite possibilità che possono essere prese in considerazione. Se da un lato i vincoli stimolano la creatività motoria e ampliano l’esplorazione di movimenti, anche vincoli che apparentemente possono limitare la libertà dei giocatori, come abbiamo visto, in realtà stimolano la ricerca di soluzioni differenti per risolvere situazioni-problema entro i nuovi confini del gioco. Inoltre, possiamo utilizzare i constraints per manipolare e dirigere il gioco verso il comportamento che vorremmo far emergere, sia esso tecnico che tattico, mantenendo il gioco in mano ai giocatori stessi.
Quando si utilizzano i constraints è assolutamente fondamentale considerare la variabilità delle risposte che possiamo riscontrare. Le soluzioni ai compiti che emergono, affiorano dalle interazioni in situ tra i vincoli organismici (ad esempio, il livello di stress, la fatica o la forza dell’esecutore) e i vincoli ambientali (ad esempio, il comportamento dell’avversario, il terreno). Ad influire la scelta della condotta, intervengono anche molti altri gradi microscopici di libertà che agiscono a livelli più bassi che non consideriamo, come a livello di sistema nervoso, muscoli, tendini, ossa, articolazioni, eccetera. I vincoli di attività, per quanto sono influenzati da elementi non totalmente calcolabili, da definizione, possono avere effetti non lineari sulle azioni dell’esecutore e dei diversi esecutori. Mentre un cambiamento drastico di più vincoli di attività può non avere alcun effetto al fine di far emergere il comportamento che ricerchiamo, un piccolo rimodellamento di un vincolo già in azione, può produrre una riorganizzazione qualitativa dell’intero sistema. Tutti questi fattori, prevedibili e non, sono ciò che determinano le scelte dell’agire dei soggetti e sono ciò che li rende complessi da utilizzare, sia nella progettazione pratica dei compiti che nella conduzione e adattamento durante la seduta stessa.

L’allenamento della tecnica

L’allenamento della tecnica è un altro tema centrale negli ultimi anni, completamente rivoluzionato dalle ultime teorie sull’apprendimento motorio. La teoria tradizionale fondava l’allenamento della tecnica sul metodo analitico, ovvero sulla ripetizione del gesto, spesso scomponendolo, allenando le singole fasi di movimento e poi ricomponendolo. L’obiettivo è rafforzare specifiche vie neurali nel sistema nervoso, sviluppando schemi motori stabili per i sottocomponenti del movimento, o di arricchire le tracce in una rappresentazione interna del movimento. L’ideologia alla base di questo modo tradizionale di esercitarsi su componenti separate del compito si basa sul presupposto che i sottocompiti siano essenzialmente attività indipendenti e che ci sia poca differenza nell’eseguirli separatamente o come un’azione coordinata, e, anzi, il perfezionamento di ciascuno di questi, possa essere reintegrato nell’intera azione in modo addizionale. I manuali di allenamento tradizionali, infatti, presentano il modello del programma motorio ideale e le progressioni per l’apprendimento parziale-integrale. Questo approccio ha portato a una pratica di allenamento che si concentra sullo sviluppo di un gesto stereotipato, isolato dalle condizioni ambientali in cui può avvenire.


Il compito di ciascun allenatore, in questo caso, è creare le condizioni per la riproduzione dettagliata e costante per ciascuna sottofase ed elaborare esercitazioni-progressione per riunirli, spesso in contesti statici e stabili, in modo estremamente meticoloso. Tale metodo, che possiamo descrivere come atomizzato, segue una progressione logica dal semplice al complesso, dal facile al difficile e dal noto all’ignoto, in quanto i componenti del compito vengono prima padroneggiati isolatamente. Questo approccio è esemplificato dai battitori nel cricket e nel baseball che si allenano a ricevere la palla da una macchina che la spara in maniera esattamente identica. A sostegno di questa tesi, Schmidt e Young (1986) portano come esempio il servizio del tennis, come uno di quei compiti in cui vi è “una chiara evidenza che l’esercizio dei sottocompiti isolati può essere trasferito al compito totale”, poiché si ripete in condizioni stabili. La battuta è composta da due programmi motori separati che si svolgono in sequenza, il backswing della palla e il secondo programma che produce il colpo, e avvengono nella stessa sequenza in modo identico.
Spesso tale processo di scomposizione non permette di riconoscere come le parti separate di un’azione multiarticolare siano co-dipendenti l’una dall’altra per il successo dell’esecuzione dal punto di vista motorio, ma soprattutto non permette di associare il gesto a una situazione reale, poiché non considera, tra le cose, anche l’influenza dell’ambiente. Non c’è dubbio che l’utilizzo di tale approccio porti a dei miglioramenti evidenti, tuttavia, le prove a sostegno di questa spiegazione teorica sono limitate e la ricerca empirica mette in dubbio l’efficacia degli approcci additivi nell’acquisizione delle abilità. Diversi studi hanno dimostrato che la scomposizione delle azioni per migliorare i moduli o le sottofasi porta a un trasferimento limitato quando si torna all’esecuzione dell’intero compito. Come sostiene D’Arrigo (2015) “L’esercizio analitico separa il “modo di fare qualcosa” dallo “scopo per cui si fa” e permette solo un apprendimento codificato di determinate strutture, che difficilmente sarà utilizzabile nello sviluppo reale del gioco”. Il gesto viene eseguito meccanicamente senza una partecipazione cognitiva attiva del soggetto, e viene disaccoppiato dall’analisi delle informazioni ambientali prima di eseguirlo, dalla presa di decisione e dall’esito che ne consegue. Nel caso dei battitori di baseball, siamo certi che la pallina non verrà mai lanciata nella stessa direzione, con la stessa forza e con la stessa traiettoria più volte consecutivamente, così come anche nel caso del tennis non è tenuta in considerazione l’influenza che avrà il campo di gioco, la scelta tattica dell’avversario a cui adattarsi e la presenza del pubblico.

In conclusione, le strategie pratiche dovrebbero evitare di compromettere la relazione tra la coordinazione delle parti di un gesto, ma, piuttosto, enfatizzare la globalità dello stesso in relazione all’obiettivo e all’ambiente. La semplificazione di un’azione, piuttosto che la sua scomposizione, è un metodo più efficace per aiutare gli atleti a cercare soluzioni funzionali alla prestazione, consentendo al contempo di variare le condizioni.

Bernstein (1967) coniò il termine “ripetizione senza ripetizione” suggerendo che nell’apprendimento di un gesto si dovrebbe ripetere il processo di risoluzione di problemi che la prestazione presenta utilizzandoli come strumento, piuttosto che ripetere lo stesso per innumerevoli volte nelle stesse condizioni. Ciò che prima era il fine della proposta, diviene il mezzo. Essenzialmente, Bernstein ha sottolineato la necessità di maggiore flessibilità da parte degli allenatori per incoraggiare gli studenti a cercare di soluzioni differenti allo stesso problema o a problemi simili, senza stereotipare un gesto ideale. Le proposte dovrebbero fornire, da un lato, opportunità di ricerca per incontrare nuove soluzioni di movimento mai esplorate e, dall’altro, situazioni diverse che diano la possibilità ai giocatori di scegliere di ripetere uno stesso gesto in modi differenti.

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    7 Episodi (160 min.)
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Nella teoria ecologica dinamica è cruciale la presa di decisione nel processo d’apprendimento: la scelta determina l’apprendimento. Il giocatore, attivo mentalmente, attraverso la percezione dell’ambiente, deve scegliere autonomamente come risolvere i problemi, utilizzando la tecnica come uno strumento per il fine, proprio come durante lo sviluppo reale del gioco. La loro funzione è in relazione, appunto, alla risoluzione di situazioni e problemi. La distinzione che tradizionalmente si fa tra il comportamento tecnico e tattico perde di significato. La variabilità dell’ambiente sarà ricercata tramite la manipolazione dei vincoli di compito sopracitati, che saranno gli strumenti a disposizione dell’allenatore per indirizzare la ripetizione di un tal gesto come soluzione a un problema.
Quanto sopra discusso non vuole abolire completamente la tecnica analitica, mostrandola inutile, bensì vuole far riflettere sul suo utilizzo. È evidente che, qualora si manifestino nei giocatori particolari lacune tecniche o tattiche, non ci si può esimere dall’intervenire su aspetti parziali della prestazione, ma ci si riferisce a un limitatissimo lasso di tempo. Il suo utilizzo è concepito principalmente ai primissimi approcci con nuovi gesti complessi a livello coordinativo o ai livelli della massima prestazione, dove si ha il modo e il tempo a sufficienza per correggere e affinare alcuni comportamenti. Nel primo caso, una volta dati gli strumenti grezzi, sarà il gioco a personalizzarli ed allenarli, e nel secondo caso, teniamo presente che, come mostrano i risultati in letteratura, i parametri di un gesto ideale esistono sulla teoria, ma, spesso, non vengono riscontrati nella pratica dai giocatori di massimo livello.

Feedback esterno vs interno

Un compito importante per gli allenatori è quello di fornire ai praticanti feedback per guidare le prestazioni nei successivi tentativi di pratica dei giocatori. Queste informazioni di ritorno aiutano gli atleti a riflettere o ad essere consapevoli dell’efficacia del loro comportamento, sia in termini di scelte tecniche che tattiche. Inoltre, la corretta stimolazione tramite rinforzi alimenta la motivazione a persistere con la pratica da un lato, e al piacere del gioco dall’altro. Tuttavia, è importante rendersi conto che queste informazioni possono essere acquisite tramite metodi e mezzi diversi, non tutti efficaci. In questo senso, gli allenatori devono essere consapevoli di come incidono le differenti fonti di feedback, in modo da determinare quando e come dovrebbero essere fornite tali informazioni.

Withing e Brinker (1982) hanno distinto le informazioni che percepiscono gli allievi durante l’acquisizione di un’abilità in “immagine dell’atto” ed “immagine del risultato”. La prima concentra gli atleti al focus interno, ovvero induce a porre l’attenzione alla meccanica o alle dinamiche del gesto, quindi, ad esempio, a come posizionare i piedi per eseguire un passaggio lungo o a quale parte del piede utilizzare. Se un allenatore fornisce informazioni relative all’ “immagine del gesto”, utilizza il suo intervento per la correzione o prescrizione di aspetti puramente tecnici, dirigendo l’attenzione dei giocatori internamente. Al contrario, fornire informazioni relative all’ “immagine di risultato” pone centralità agli effetti che ha prodotto il movimento in relazione all’obiettivo da raggiungere, o, in altre parole, se il gesto scelto è stato efficace o meno. In questo caso l’allenatore prescrive al giocatore un obiettivo e lo induce a concentrarsi sul risolvere il problema, indipendentemente dal come: crea un focus esterno al soggetto stesso e interviene incidendo su questo aspetto. Durante l’allenamento, dunque, l’allenatore può, con le sue istruzioni e i suoi feedback, dirigere l’attenzione dei giocatori verso aspetti interni o esterni. I risultati di uno studio di Wulf et al. (2002) hanno rivelato che un focus esterno produce un miglior apprendimento nelle prestazioni di abilità complesse. Tali autori hanno affermato che un focus attentivo esterno non distraesse gli studenti dai movimenti richiesti, ma consentisse ancor più la regolazione implicita delle prestazioni e dell’apprendimento dei compiti. Davids, Button e Bennett (2008) hanno anche dimostrato che l’efficienza dell’uso di un focus esterno è legata al fatto che questo non interferisce con i processi di auto-organizzazione delle dinamiche di movimento mentre eseguono il compito. I feedback che fanno concentrare gli allievi sulle dinamiche di movimento possono, infatti, al contrario, privarli dell’opportunità di esplorare nuove soluzioni. La ricerca attuale supporta l’idea che l’uso di un focus esterno favorisca la scoperta di nuove vie allo stesso modo efficienti per completare i compiti.

Un’altra importante informazione didattica è legata alla frequenza del feedback da fornire per un apprendimento più efficace. Tradizionalmente, gli allenatori hanno avuto la tendenza a fornire copiose quantità di feedback nella convinzione che potessero aiutare di più i giocatori. Secondo l’ipotesi proposta da Salmoni, Schmidt e Walter (1984), fornire un feedback aumentato su ogni prova ha un effetto benefico nell’immediato ma un effetto dannoso sull’apprendimento delle abilità. Commentare ogni tentativo di pratica può portare a un sovraccarico di informazioni, impedendo all’allievo di essere adeguatamente coinvolto e sviluppare autonomia nel processo di risoluzione dei problemi e, di conseguenza, comportare una dipendenza dal feedback.

Wulf et al. (2002) hanno studiato gli effetti della frequenza di feedback in relazione al focus, esterno o interno, sull’apprendimento di un passaggio nel calcio. Secondo i risultati, ricevere un feedback esterno una volta ogni tre prove è comunque leggermente meno funzionale per l’apprendimento che ricevere un feedback interno per ogni prova. Si evidenzia, ancora una volta, l’effetto dannoso di dirigere la ricerca alla dinamica del movimento e alle parti del corpo sull’apprendimento e sulle prestazioni in abilità complesse, come può essere un passaggio. Sembra difficile determinare quale sia la quantità e frequenza ideale di feedback che gli allenatori dovremmo fornire. Tuttavia, da questo studio, capiamo che il comportamento che produce meno risultati è fornire una grande quantità di feedback con focus interno, ovvero relativi a indicazioni puramente tecniche e gestuali.
Concludiamo che fornire più feedback non provoca più apprendimento che fornirne meno ma è necessario raggiungere il corretto equilibrio, in modo che l’atleta possa sviluppare sufficiente autonomia nel processo di soluzione dei problemi e che siano focalizzati sull’obiettivo, lasciando autonomia nella scelta del come.

La complessità nel calcio

Nel gioco del calcio si affrontano due squadre, le quali sono sistemi complessi, a loro volta costituiti da sistemi complessi, ovverosia i singoli giocatori. In ogni giocatore le componenti fisiche, tecniche, tattiche, cognitive e psicologiche costituiscono un insieme integrato in cui ciascuna parte non è separabile dalle altre. Così, durante la partita i giocatori della stessa squadra sviluppano tra loro una fitta rete d’interazioni collaborative, anche relazioni di tipo oppositivo si instaurano coi giocatori della squadra avversaria. Nel corso del gioco la scelta di ogni giocatore condiziona le scelte dei propri compagni e avversari e produce una serie di effetti e reazioni a cascata. Necessariamente dobbiamo giungere alla conclusione che non solo il movimento del singolo individuo non può essere preordinato, ma anche quello dell’intera squadra è impredicibile a priori. Di conseguenza, spesso risulta inutile allenare l’esecuzione di schemi preordinati o sequenze di passaggi. Anche per quanto riguarda l’apprendimento della tecnica possiamo riferirci ai concetti che abbiamo sopra esposto. È utile, piuttosto, riferirsi a principi di gioco, attraverso la creazione di un linguaggio comune verbale e non, che sia riconosciuto e condiviso dai membri della squadra. Le relazioni e la comunicazione tra giocatori, allora, vanno valorizzate e rese centrali, ridimensionando l’importanza della tecnica analitica per adottare un approccio di tipo globale.

Per comprendere come imparare a muoversi agevolmente all’interno di una situazione così imprevedibile, possiamo pensare alla guida di un autoveicolo in una strada molto trafficata. Solo nelle primissime fasi del processo di apprendimento si dovranno trasmettere le conoscenze riguardanti i fondamentali tecnici per spostarsi con l’auto: come metterla in moto, come partire, cambiare le marce e arrestarsi. Dopo i primi tentativi, che saranno effettuati in un ambiente stabile in condizioni facilitate, dove ci si potrà cimentare nel controllo del veicolo senza particolari pressioni emotive, si comincerà prima a muoversi in situazioni meno caotiche, fino a dover gestire situazioni sempre più complesse. Solo attraverso l’esperienza, familiarizzando al massimo con l’ambiente e i contesti specifici della gara, si possono sviluppare le capacità tattico-tecniche necessarie per gestire al meglio le situazioni e i problemi che si potranno presentare durante la partita. Tutti i singoli elementi costitutivi, dell’individuo e della squadra, devono essere sempre ricondotti alla dimensione del gioco, dove le singole azioni si realizzano in un contesto di interdipendenza con compagni e avversari. Come dopo che abbiamo imparato a partire con l’auto, cambiare le marce o parcheggiare, non ci eserciteremo più nei piazzali, così come dopo l’acquisizione del gesto tecnico di base l’esercizio analitico perde il suo significato. Ogni passaggio non sarà mai nelle stesse condizioni, alla stessa distanza e nella stessa direzione ma soprattutto senza la presenza di un singolo avversario: lo stesso eseguito in un contesto situazionale cambia completamente, perché estremamente influenzato dall’intorno. Se pensiamo a un passaggio a 10 metri, sia a livello di comando centrale che di esecuzione, esso è differente se eseguito all’interno della famosa croce, in un gioco di posizione o possesso, o ancor più durante una partita ufficiale. È ancora differente se eseguito in direzione del portiere che dà sostegno o dell’attaccante che si inserisce per fare goal. In conclusione, durante il gioco saranno sempre presenti stimoli ambientali diversi, avversari, campi su cui giocare, avversari differenti e, ancora, pressioni psicologiche che rendono unica la situazione.

È necessario variare i compiti motori che il giocatore si trova ad affrontare per metterlo nelle condizioni di esperienzare situazioni simili a quelle che si ritroverà in gara. La teoria ecologica dinamica, in questo senso, ci ha aiutato a capire come avviene l’apprendimento a livello motorio, e di conseguenza come agire a livello pratico con i nostri allievi. L’allenatore sarà un “facilitatore dell’apprendimento”, non imponendo una via, ma, guidando alla comprensione delle dinamiche di gioco, offrendo gli strumenti per fronteggiare e risolverne le situazioni di gioco, dove con “strumenti” non intendiamo i gesti tecnici, ma un’efficace capacità di analisi, presa di decisione ed esecuzione. Si inizierà con esercitazioni con livelli di complessità minore a cui seguiranno impegni di complessità crescente, fino a raggiungere giochi nei quali sono presenti tutti gli elementi che caratterizzano il gioco reale.

Applicazione pratica

Assordato dunque, che la previsione esatta dei risultati di una performance non è possibile, anche il prodotto che i vincoli comportano nelle scelte dei giocatori non è determinabile a priori. La chiave è l’utilizzo di questi vincoli per guidare la ricerca di soluzioni di movimento nuove e individualizzate in un ambiente di apprendimento rappresentativo. Proprio questo lo scopo di questa sperimentazione eseguita con dei giovani calciatori: applicare i principi della metodologia CLA.

In due proposte di allenamento, un gioco di posizione e la partita, sono stati manipolati tre vincoli di compito, ovvero dimensioni del campo, delle porte e superiorità numerica, per studiare come variavamo alcuni parametri, in termini di passaggi, scelte ed errori, in calciatori di 8 e 9 anni di età.



Metodi
Partecipanti e procedura

Sono state svolte e video-registrate due proposte di allenamento durante le sedute previste nella programmazione annuale della squadra stessa. Hanno partecipato allo studio 12 giovani calciatori età media 8 anni, nati tutti nel 2015 (età 8±1 anni) facenti parte della medesima squadra di calcio. La prima tipologia di esercitazione è stata un gioco di posizione, mentre la seconda una partita a campo ridotto.

Il primo prevede l’opposizione di due squadre con l’obiettivo di mantenere il possesso della palla più a lungo possibile, aiutate da uno o più giocatori nella funzione di jolly. Questo gioco viene chiamato ‘di posizione’ perché i giocatori della squadra in possesso della palla si dispongono in spazi predefiniti. Le variabili indipendenti modificavano le dimensioni della superficie del campo di gioco e il numero di giocatori nel ruolo di jolly. La partita prevede l’opposizione di due squadre con le medesime regole del regolamento ufficiale. Si sono manipolate le dimensioni del campo e delle porte.
Il campo su cui è stato sviluppato lo studio è lo stesso nel quale la squadra abitualmente si allena, negli stessi orari. La superficie del terreno è sintetica. Sono state utilizzate porte regolari già presenti nella struttura e di dimensioni minori 170 x 105 cm della marca Conquest.

(1-2) Foto dell’impianto nel quale è stato svolto lo studio, con particolare dell’erba sintetica.

Tutte le sedute di allenamento sono state sviluppate nella stessa porzione di campo. Sono stati utilizzati delimitatori colorati per definire lo spazio di gioco, spesso in corrispondenza delle linee di gioco già presenti per facilitare i giocatori al riconoscimento della superficie valida. Come anticipato, sono stati manipolati gli spazi di gioco per ciascuna proposta; perciò, nell’immagine di seguito sono stati rappresentati con diversi colori i campi utilizzati. Tra una proposta o variante e l’altra venivano dati due minuti di recupero, in modo tale da disporre la successiva esercitazione.

Le proposte sono state registrate con la videocamera in 4K o HD da 24 a 60 fps alla risoluzione di 3840×2160 pixel di un iPhone 15 posto in un apposito cavalletto treppiedi disposto in corrispondenza del prolungamento della metà del campo in uso per la proposta, in modo tale da mantenere il campo visivo su tutto lo stesso.

(3) Rappresentazione visiva della disposizione delle proposte nel campo. Per i giochi di posizione: in rosso un campo di dimensioni 16×13 m, in giallo 16x20m e in blu 18x24m mentre per la partita in verde il campo di dimensioni 16x24m e in nero 19x30m.
(4) Porta utilizzata nelle partite a campo ridotto
(5) Cavalletto utilizzato per la registrazione dei video durante l’allenamento
(6) Rappresentazione visiva della disposizione delle proposte nel campo e del posizionamento del cavalletto.

Nessuna regola specifica è stata utilizzata nei giochi per influenzare lo sviluppo del gioco delle partite. Una grande quantità di palloni è stata posizionata lungo il perimetro del campo per garantire una rapida sostituzione dello stesso quando usciva dal campo di gioco. Per incoraggiare il mantenimento di un alto tasso di lavoro, è stato fornito un supporto verbale a tutti i partecipanti durante ogni esercizio dall’allenatore della squadra, posizionato adiacente all’area di gioco. Tutti i giochi sono stati svolti in seguito a un riscaldamento globale ludico di 15 minuti.
I giorni e gli orari di allenamento sono stati gli stessi nei quali abitualmente i giocatori praticavano. Sono state necessarie più sedute per la raccolta dei dati, per una durata totale di dieci settimane.

PROPOSTA 1: il gioco di posizione

Il gioco di posizione prevedeva la divisione dei partecipanti in due squadre composte da 4 giocatori cadauna, oltre a 2 o 3 giocatori che ricoprivano il ruolo di jolly. Lo scopo del gioco era di mantenere il possesso della palla il più a lungo possibile.
Ogni squadra indossava pettorine di colore diverso per favorire il riconoscimento dei propri compagni. I colori sono stati mantenuti gli stessi per tutto lo svolgimento dello studio, in particolare arancione e verde per le due squadre e giallo per i jolly. La durata di ciascun gioco di posizione è stata standardizzata a 15 minuti non effettivi, inclusa la spiegazione, ed è stato riproposto in più sedute successive. Le prime tre sessioni sono state utilizzate per far comprendere le regole e la familiarizzazione con le dinamiche dello stesso e non sono state registrare, per evitare che influenzassero le analisi dello studio.
La squadra in possesso aveva l’obiettivo di mantenere il possesso quanto più a lungo possibile e doveva mantenere una disposizione nel campo predefinita: i quattro giocatori si disponevano a coppie lungo i lati lunghi del rettangolo coprendoli omogeneamente, ma non erano assegnate posizioni fisse ad alcun giocatore. Al momento del recupero i giocatori potevano cambiare la posizione in relazione alla dislocazione spaziale propria e dei compagni al momento del recupero. La squadra in recupero si disponeva liberamente all’interno del rettangolo e aveva l’obiettivo di recuperare nel minor tempo possibile il pallone. Una volta recuperato, senza fermare però il gioco, si dovevano disporre come previsto per la fase di possesso. I jolly, infine, erano liberi di occupare lo spazio interno quando erano 2, mentre se 3, erano invitati a occupare ciascuno dei due lati corti e il terzo lo spazio centrale. Avevano il compito di collaborare sempre e solamente con la squadra in possesso della palla, perciò, erano sollevati dal compito del recupero della stessa. Potevano essere liberamente pressati e contrastati. I giocatori che hanno svolto il ruolo di jolly sono stati sempre gli stessi quattro, a rotazione.

Per lo scopo dello studio, ovvero applicare il constraints-led approach, sono stati manipolati gli spazi di gioco, utilizzando tre campi di dimensioni differenti: chiameremo “ridotto” il campo 16 x 13 m in rosso, “medio” 20×16 m in giallo e “grande” 24×18 m in blu, perimetrate da delimitatori del medesimo colore.


(7) Rappresentazione del gioco di posizione nella prima variante: giocatori arancioni in possesso della palla, verdi a recupero e tre jolly di colore giallo.
(8) Rappresentazione del gioco di posizione nella seconda variante: giocatori arancioni in possesso della palla, verdi a recupero e due jolly di colore giallo.
(9) Rappresentazione dei tre spazi di gioco. In rosso 16 x 13 m, in giallo 20 x 16 m e in blu 24 x 18 m.

PROPOSTA 2: la partita

La seconda esercitazione proposta e video-registrata è stata una partita 5 contro 5 su campo ridotto con il regolamento delle gare ufficiali: due squadre in opposizione giocavano con l’obiettivo di far goal e non subirne. Anche in questo caso sono state utilizzate pettorine per differenziare le due squadre, di colore arancione e verde. Il giallo non è mai stato utilizzato in quanto era associato al ruolo di jolly. Le partite avevano una durata dai 20 ai 25 minuti non effettivi. Per queste non è stato previsto un periodo di familiarizzazione, in quanto i giovani calciatori erano già soliti svolgerla abitualmente.
Anche in questa proposta le varianti utilizzate riguardavano superfici di due dimensioni, e, nel caso dello spazio maggiore, erano previste porte di dimensioni regolari con presenza del portiere. Per il campo minore è stato previsto l’uso di porte più piccole. Le dimensioni sono state calcolate in proporzione alle dimensioni del terreno di gioco previsto dal regolamento ufficiale FIGC per tale categoria. Rispettivamente, in ordine di grandezza, sono state 30 x 19 m e 24×15 m. Le dimensioni delle porte sono riprese nuovamente dal regolamento ufficiale, mentre sono state utilizzate delle porte di 170 x 105 cm della marca Conquest nella variante minore.

(10) Rappresentazione grafica del gioco partita, 5 contro 5 in campo di dimensioni 24x15m e 30 x 19 m con porte piccole.
(11) Rappresentazione grafica del gioco partita, 5 contro 5 in campo di dimensioni 30 x 19 m con porte regolari e portieri.

I video sono stati analizzati tramite metodo osservazionale. Sono stati contati il numero di passaggi effettuati per ogni azione di gioco. Il passaggio è individuato come un’abilità tattica individuale che prevede l’atto di trasmettere ed indirizzare intenzionalmente la palla ad un compagno. Perché fosse ritenuto valido, non solo doveva essere effettuato dal primo giocatore, ma doveva essere indirizzato e ricevuto dal compagno.
Sono stati analizzati, inoltre, gli errori per i quali si perdeva il possesso della palla, che potevano essere del giocatore che effettua il passaggio, del ricevente o dovuti all’intercetto dell’avversario. Ciascuno è stato, poi, classificato, distinguendo tre categorie di errori: tecnici, tattici o dovuti all’avversario. Definiamo “tecnico” qualsiasi errore che preveda un’erronea esecuzione dei gesti tecnici. In questi casi non doveva essere coinvolta la presa di decisione e non doveva essere influenzato dalla pressione avversaria ravvicinata. Gli errori più frequentemente riscontati riguardano il controllo, il direzionamento del passaggio e la differenziazione della forza impressa al passaggio.
Nella categoria “tattica” rientrano tutti gli errori che coinvolgono i processi di presa di decisione; parliamo, dunque, delle cinque W del passaggio. When, il quando, con tutti gli aspetti da considerare relativi al timing. Where, il dove, che più che riferirsi alla zona di campo, si osserva la direzione dello stesso, se sullo spazio è detto indiretto, o al compagno chiamato diretto; Who, a chi, relativamente alla scelta del compagno a cui direzionare il passaggio, How, come, ovvero con che parte del piede o del corpo si sceglie di effettuarlo, e infine perché, Why, già definito a priori dallo stesso scopo dell’esercizio.

Nella partita, il perché riguarda la natura del gioco, ovvero cercare di creare azioni per fare goal, e nel caso del gioco di posizione, il perché è definito dall’obiettivo della proposta, ovvero mantenere il possesso più a lungo possibile. Frequenti sono state le occasioni in cui la palla veniva passata a un compagno marcato strettamente da un avversario, in cui la presa di decisione è stata troppo lenta e ha permesso la presa di posizione degli avversari, eliminando soluzioni fruibili o, al contrario, dove la scelta è stata effettuata frettolosamente da giocatori non pressati, erroneamente, o, ancora, si è compiuta una scelta erronea della parte del piede (passaggio con la punta del piede piuttosto che con l’interno).

La terza categoria, nominata “errori da avversario”, racchiude tutti gli errori che coinvolgono l’intervento attivo e/o passivo di un avversario. Esempi frequenti sono l’intercetto di un passaggio, l’anticipo sul ricevente e la pressione forte al momento della ricezione, individuale o collettiva.
Gli errori che sono stati dovuti a più fattori sono stati categorizzati in relazione alla situazione di gioco in cui venivano commessi. In ordine di importanza si sono ritenuti più influenti quelli dovuti agli avversari, poi quelli legati alla scelta e infine quelli tecnici. Dunque: in generale, errori che rientravano sia nella categoria di esecuzione o di scelta, che da avversario, sono stati posti nella terza tipologia, in quanto si è ritenuto che in entrambi i casi fosse stato determinante la presenza dell’avversario comportare l’errore. Quest’ultimo, infatti, si presuppone che per la sola presenza attiva nel momento di presa di decisione ed esecuzione abbia posto ingombro psicologico determinante per il proseguo. Per esecuzioni e scelte sbagliate nello stesso passaggio, venivano categorizzati in relazione alla situazione, per quale fosse ritenuto il più grave.

Analisi statistiche

I risultati sono mostrati attraverso l’utilizzo di frequenze relative (%) e assolute, medie e deviazioni standard. È stato utilizzato il test del chi-quadrato per calcolare la significatività delle relazioni, con i residui di Pearson per determinare quali celle determinassero la significatività della relazione. Per il confronto tra medie delle variabili quantitative, sono stati utilizzati i test t di Student. Per tutte le analisi, il livello di significatività è stato posto a p<0,05.

Risultati

I dati raccolti, in totale, sono relativi a 731 azioni, di cui 479 nei giochi di posizione e 252 durante i match.

Distribuzione assoluta e relativa delle azioni in relazione al numero di passaggi

Sono state raggruppate le azioni per numero di passaggi e ne è stata studiata la distribuzione in relazione alla tipologia di esercitazione e riportata in due grafici a colonne raggruppate. Il primo mostra il numero di azioni che contano un determinato numero di passaggi in termini assoluti, quindi, ad esempio quante azioni si sono concluse con 0 piuttosto che 1, 2, 3 passaggi e così via. In azzurro le azioni del gioco di posizione, mentre in grigio della partita.

I valori sono stati, poi, normalizzati, quindi mostrate le percentuali in termini relativi di ogni azione divise per numeri di passaggi, sul totale.

Se, a primo impatto, in termini assoluti il gioco di posizione prevale sempre sulla partita, notiamo come, normalizzando, la percentuale di azioni con 0 e 1 passaggi durante la partita sia maggiore e vada a diminuire aumentando il numero di passaggi. Infatti, con due passaggi si equipara e, già da tre, prevale la colonna azzurra. La curva esponenziale è molto più accentuata per la partita, piuttosto che nel gioco di posizione, nel quale la discesa è meno drastica. Tali risultati sono assolutamente aspettati. Mentre lo scopo del gioco di posizione è mantenere il possesso palla, ovvero tentare di raggiungere un numero maggiore possibile di passaggi, durante la partita l’obiettivo è quello di fare goal, indipendentemente dallo sviluppo dell’azione. Il secondo motivo, estremamente rilevante, è dovuto al differente numero di giocatori in possesso palla tra le due proposte: il match prevede un 5 vs 5, ossia una parità numerica, mentre nel gioco di posizione è sempre prevista una superiorità numerica, doppia o tripla. Nel primo caso mantenere il possesso della palla è più difficoltoso perché le marcature sono in rapporto 1:1, mentre nel secondo la condizione è in favore della squadra col pallone.

Relazione tra numero di passaggi durante un’azione e la superficie di gioco

La correlazione tra il numero di passaggi e la dimensione del campo, distintamente per le due proposte, è uno dei principali aspetti che si intendeva analizzare. Ci si aspettava che, aumentando le dimensioni, venisse favorito il possesso della palla, in quanto i giocatori hanno a disposizione più spazi dove poter cercare una zona libera per sviluppare il gioco.
Il primo grafico a colonne, in cui nelle ascisse si trova la tipologia di campo e nelle ordinate la media di passaggi, mostra l’andamento dei valori medi. Accanto la tabella dei valori, appunto, di medie e deviazioni standard. Per studiare se l’aumento della superficie tra le due dimensioni successive comportasse un incremento significativo, è stato utilizzato il test t di Student accoppiato. Evidenziati in giallo nella tabella seguente sono i valori di p<0,05, che indicano una differenza tra medie statisticamente significativa.

Grafico 3. Grafico a colonne per gioco di posizione e partita nelle varianti di dimensioni per mostrare i valori medi del numero di passaggi distintamente.
Tabella 1. Tabella dei valori di medie e DS del numero di passaggi per i giochi di posizione e partita nelle tre dimensioni.
Tabella 2. Tabella dei valori del test t di Student per confrontare le dimensioni dei campi di gioco per ciascuna proposta. In giallo i valori significativi.

Nel gioco di posizione, quando si associano i valori dei campi 24 x18 m e 20 x 16 m, in relazione alle dimensioni di 16 x 13 m, la cifra risultante è assolutamente significativa (p<0,05), ma non risulta significativa nella differenza tra i due campi di superfici maggiori. Quindi, confrontando il campo più piccolo sia con quello medio, che con quello grande, constatiamo un cambiamento rilevante, mentre tra medio e grande, no. Nel gioco partita la dimensione del campo non influisce sul numero medio di passaggi delle azioni (p>0,05).
I risultati suggeriscono che per aumentare il tasso di successo dei giochi di posizione in merito al possesso palla è utile utilizzare spazi più ampi, come si ipotizzava. Gli spazi estremamente ridotti nel gioco aumentano la densità di giocatori in zona palla e la difficoltà nel mantenimento del possesso, perciò, estendendo la superficie, il tasso di riuscita si alza. In sostanza, le dimensioni del campo influenzano lo sviluppo del possesso della palla nei giochi di posizione entro una certa dimensione, mentre non lo sono per la partita per le dimensioni utilizzate.

Relazione tra possesso della palla e numero di jolly

Sono state calcolate le medie del numero di passaggi suddividendo le azioni in sei categorie, in relazione alle dimensioni e, contemporaneamente, in relazione al numero di jolly presenti. Per studiare l’influenza del numero dei jolly, due o tre, è stata effettuata un’analisi statistica, nuovamente tramite test t di Student accoppiato tra le due varianti della stessa dimensione di gioco.

Grafico 4. Grafico a colonne raggruppate per mostrare i valori medi del numero di passaggi nelle tre dimensioni del gioco di posizione e il numero di jolly partecipanti.
Tabella 3. Tabella dei valori delle medie del numero di passaggi per i giochi di posizione nelle tre dimensioni con due e tre jolly
Tabella 4. Tabella dei valori del test t di Student per studiare la significatività della presenza di due o tre jolly, nelle tre dimensioni dei campi.

Nessuna differenza è risultata significativa (p>0,05). Notiamo, però, che la differenza assoluta tra le medie nelle stesse dimensioni del campo, è di 0,5, una differenza sostanziale, visibile immediatamente. Allora, studiando a fondo i dati, giungiamo alla conclusione che la causa della mancanza di significatività potrebbe essere attribuita alla quantità di dati non sufficiente per ciascuna delle sei categorie.
Per ovviare al problema dell’esiguità dei dati, è stata fatta un’ulteriore analisi nella quale si sono sommate tutte le casistiche con due jolly e tutte le casistiche con tre jolly, indipendentemente dalla dimensione. La media delle azioni con tre jolly è di 3,26 mentre quella con soli due jolly è di 2,7. Accoppiati i valori, si riscontra un valore di p pari a 0,007, che, come ci aspettavamo, mostra una differenza tra media statisticamente significativa (p<0,05).
Seppur le differenze medie per le singole attività non siano risultate statisticamente significative, in conclusione, possiamo affermare che c’è comunque una tendenza ad aumentare il numero di passaggi con un jolly in più.

Grafico 5. Grafico a colonne raggruppate per il gioco di posizione in relazione solo al numero di jolly, indipendentemente dalla dimensione dei campi di gioco.
Tabella 5. Tabella dei valori delle medie di passaggi nel gioco di posizione in relazione al numero di jolly, indipendentemente dalla dimensione dei campi.
Tabella 6. Tabella del valore del test t di Student per studiare la significatività della presenza di due o tre jolly nel gioco di posizione indipendentemente dalla dimensione dei campi.

Analisi tipologia di errore commesso

Un’ulteriore analisi è stata fatta sulle motivazioni per i quali sono stati commessi gli errori che hanno comportato la perdita del possesso: le frequenze relative sono state espresse in grafici a torta. Sono rappresentati quattro spicchi per la partita, poiché sono state prese in esame anche le azioni che terminano con la realizzazione di un goal, il 7%, assenti, invece, nel gioco di posizione. Nella tabella riportiamo le analisi statistiche che ci aiutano a capire quali differenze di errore tra gioco e partita siano rivelanti, evidenziate in giallo.

Grafici 6 e 7. Grafici a torta per mostrare le percentuali delle tipologie di errori nel gioco di posizione (6) e partita (7) .
Tabella 7. Tabella dei valori che studiano la significatività nella differenza tra le due proposte della stessa tipologia di errore.

Nello svolgimento dei giochi di posizione gli errori dovuti all’avversario sono maggiori, con una differenza statisticamente significativa. Per le percentuali di errori tecnici e tattici, infatti, notiamo una tendenza minore per il gioco, seppur non statisticamente significativa. Inizialmente questo risultato può sembrare in controtendenza con quanto esposto precedentemente, perché, essendoci più avversari durante la partita, dovrebbero essere maggiori le interazioni con gli avversari stessi. Tuttavia, ciò si può associare una minor percentuale di errori tecnici e tattici. Nel gioco di posizione i giocatori in possesso della palla hanno più tempo a disposizione per la presa di decisione e per la cura del gesto tecnico e più compagni a disposizione a cui indirizzare il passaggio correttamente: la percentuale degli altri tipi di errori si può ridurre per tal motivo.

Relazione tra numero di passaggi e tipologia di errore commesso

Successivamente, si è voluto analizzare se ci fosse una relazione tra il numero di passaggi effettuati durante un’azione e la tipologia di errore per il quale si interrompe, indipendentemente dalla tipologia di proposta. Il test chi quadro mostra un p <0,001, che indica una relazione statisticamente significativa tra queste due variabili. Attraverso i residui di Pearson, allora, si è indagato quali fossero i fattori più correlati a determinare la cifra ottenuta.

Tabella 8. Tabella dei residui di Perarson che studiano la relazione tra il numero di passaggi e la tipologia di errore. In giallo i valori significativi.

Nello specifico, osserviamo evidenziata nella tabella di colore giallo la casella tra zero passaggi e errore di avversario, ancora tra 0 passaggi e il goal e, infine, tra un passaggio e l’errore tattico. Capiamo che, nel primo caso, l’intervento dell’avversario alla prima trasmissione è frequentemente significativo: possiamo giustificarlo con una mancanza di compagni liberi o che effettuano movimenti di smarcamento per ricevere la palla, costringendo il portatore di palla ad effettuare una trasmissione ad un compagno marcato e facilitando così l’anticipo avversario. Nel terzo caso, che vede protagonista l’errore di scelta nel secondo passaggio, possiamo continuare con l’ipotesi sopra esposta, sostenendo che, seppur i giocatori sono riusciti a evitare l’anticipo alla prima trasmissione, la pressione emotiva dell’avversario li abbia influenzati ad effettuare frettolosamente la scelta successiva. Per quanto riguarda l’associazione tra l’azione che termina in gol senza aver fatto alcun passaggio, il valore è giustificato dalla percentuale alta di goal effettuati in contropiede o dopo una ribattuta del portiere. Inoltre, il valore estremamente alto è influenzato dall’esiguità di questa casistica in relazione alla quantità di dati analizzati.
Indistintamente dalla proposta, ancora, sono state calcolate la media e deviazione standard del numero di passaggi per ognuna delle tre tipologie di errore, per osservare quale fosse nelle azioni più durature, in media, l’errore tipico. Come possiamo osservare in tabella, si riscontrano medie più alte, rispettivamente di 2,92 e 2,75 azioni, nel caso in cui interviene l’avversario e in caso di errore tecnico, ma molto minori sono i possessi della palla in termini di numeri di passaggi quando interviene l’errore di scelta, molto più prossimi al valore 2. I test t di Student hanno confermato, come vediamo evidenziato in giallo nella seconda tabella, che quando viene coinvolta la scelta, o errore tattico, si riduce in modo significativo il numero di passaggi per azione.

Tabella 9. Tabella dei valori di medie e DS del numero di passaggi in relazione alla tipologia di errore, indipendentemente dalla proposta.
Tabella 10. Tabella del test t di Student per accoppiare i valori delle tipologie di errore.

Analisi sulla dimensione delle porte

Si è inoltre analizzato se la dimensione delle porte fosse rilevante per lo sviluppo del gioco. Le tre varianti sono state: (A) campo di piccole dimensioni con porte di dimensioni 170 x 105cm, (B) campo di grandi dimensioni con porte della medesima dimensione e, infine, (C) medesimo campo ma porte regolari, difese da un portiere. Come mostrato dall’analisi statistica, non si sono riscontrate differenze significative in nessun caso.
Ciò ci porta a concludere che la dimensione delle porte non sia influente nei termini del possesso palla durante lo svolgimento di una partita di dimensioni ridotte.

Tabella 11 e 12 . Tabella dei valori di medie e DS del numero di passaggi in relazione alla tipologia di campo e porte (11) nel gioco partita e test t di Student per osservare se la differenza fosse significativa.

Discussione

Lo scopo dello studio era quello di osservare se, manipolando alcuni vincoli di compito, determinati parametri del gioco venissero influenzati, mantenendo la stessa struttura della proposta. Ai partecipanti, infatti, le sedute sono state proposte in modo standardizzato allo stesso modo, per non influenzare i loro comportamenti di risposta; non sono mai stati condizionati dall’allenatore da indicazioni tecniche o tattiche. Gli interventi verbali da parte del coach sono stati solamente a sfondo gestionale (risolvere controversie tra i partecipanti) o per stimolare l’intensità durante tutta la durata della proposta. Espressamente, si è voluto esaminare l’impatto della variazione dello spazio, delle superiorità numeriche, doppia o tripla, e delle dimensioni delle porte in termini di numero di passaggi per azione di gioco e causa d’errore, in partite e giochi di posizione.
La condizione di “campo piccolo” comporta una minor capacità di sviluppo del possesso palla, sia in relazione alla condizione “campo medio”, che a “campo grande”. Superfici più ampie inducono i giocatori a posizionarsi in modo più efficace nello spazio: avendo più zone di campo libere possono dislocarsi lì, più lontano dagli avversari. Da non sottovalutare, in aggiunta, la maggior richiesta fisica alla squadra in non-possesso palla, che deve coprire spazi maggiori per intercettare la palla. Si raggiunge, però, un valore oltre il quale, seppur ampliando ulteriormente gli spazi, il numero di passaggi per azione tende a stabilizzarsi, non risultando più una determinante significativa per tale parametro. I giocatori riconoscono che allontanarsi troppo dalla cellula di gioco li estranea, limitando la possibilità di essere visti e raggiunti dal compagno tramite un passaggio. In conclusione, dimensioni del terreno di gioco maggiori influenzano positivamente lo sviluppo del giro palla fino a una dimensione limite, oltre la quale non si ravvisano ulteriori vantaggi. La scelta del gioco di posizione aiuta i giocatori ad un’occupazione organizzata dello spazio. Le posizioni non erano fissate in un punto preciso dello spazio o della linea, per non limitare le possibilità di scelta dei giocatori, bensì andavano intesi come ruoli. Durante una competizione, seppur i giocatori abbiano, appunto, dei ruoli definiti, essi hanno la libertà di muoversi oltre la loro zona di competenza in caso di richiesta da parte del gioco, così, anche in questa proposta, avevano una zona di riferimento non vincolante. Questo importante aspetto favorisce il coinvolgimento anche dei giocatori più lontani dalla zona palla. Inoltre, ciascun giocatore non era vincolato nella stessa zona dove era posizionato all’inizio dell’esercitazione, bensì, ad ogni cambio del possesso, era loro compito osservare e scegliere quale occupare: tale scelta stimola la loro attenzione in merito alla percezione spazio-temporale, perciò al comportamento dei compagni e conseguente capacità di adattamento. Sarebbe interessante investigare, allo stesso modo, tali parametri anche in un gioco di possesso. A differenza del posizionale dove sono istruiti a rimanere in una zona, quest’ultimo lascia totale libertà di movimento ai partecipanti, che sono costantemente stimolati a scegliere quale spazio occupare. Ancor più, sarebbe interessante confrontare i parametri di quest’ultima tipologia di gioco sopracitata, prima e dopo un programma di allenamento con giochi di posizione. Soprattutto in età più piccole, i giovanissimi calciatori sono attirati dalla palla, che guida i loro movimenti, perciò un condizionamento allo spazio potrebbe aiutarli, poi, nella scelta di un posizionamento efficace. L’obiettivo è capire se un periodo di allenamento con giochi di posizione possa aiutarli ad una occupazione dello spazio in funzione della palla, dei compagni e degli avversari.

Aumentare il numero dei jolly provoca una tendenza ad aumentare il numero di passaggi in ciascun possesso, anche se, come evidenziato dalle analisi, le differenze tra le singole varianti non sono risultate statisticamente significative a causa del numero limitato di dati disponibili per ciascuna variabile. La presenza di un ulteriore compagno a disposizione palesa, però, un giovamento: favorisce la squadra in possesso, che ottiene un’ipotetica soluzione di passaggio in più, e, allo stesso tempo, sfavorisce la squadra in recupero, che deve adoperarsi per marcare più avversari e coprire più linee di passaggio. Concludiamo, come ipotizzato a priori, che la presenza di un giocatore in più nella propria squadra, permette di sviluppare un possesso più durevole.

La partita è la proposta più simile alla competizione che possa essere realizzata durante l’allenamento. Un allenamento di questo tipo permette al calciatore di esercitarsi in un contesto di gioco reale, dove si incontrano tutte le caratteristiche di una partita ufficiale. Seppur si cerchi di ricrearne le dinamiche, spesso, per mancanza di spazi e numeriche di giocatori viene svolta in campi di dimensioni minori rispetto ai regolamentari, così come anche le porte stesse, spesso, sono ridotte per assenza di portieri, se si possono definire tali a quest’età. Si è cercato, per questo, di studiare come la variazione degli spazi e delle porte impatti nella partita. Con le superfici di campi e porte sperimentate, lo sviluppo del possesso palla non viene influenzato. In futuro, sarebbe interessante confrontare i parametri con quelli di una partita reale.

In merito agli errori, i principali risultati hanno mostrato che nel gioco di posizione quelli tecnici e tattici sono ridotti in percentuale rispetto all’intervento dell’avversario, in confronto alla partita. Quando avveniva un errore tattico, in particolare, il numero di passaggi era statisticamente inferiore che dopo un qualsiasi altro errore. Ci può suggerire che un errore nella scelta del giocatore a cui effettuare il passaggio è determinante nella precoce perdita del possesso. Questi risultati ci riportano ai concetti teorici espressi della prima parte di questa tesi, dove si evidenzia la necessità di praticare il processo di presa di decisione. Ogni proposta, allora, dovrebbe offrire molte opportunità di azione per favorire la partecipazione cognitiva attiva dei giocatori che, educati sempre più alla scelta consapevole, possano aumentare le loro competenze.

Questa tesi può anche essere interpretata come un’opportunità per ragionare anche oltre ai parametri che sono stati individuati nello studio: dai dati, ad esempio, ad impatto si leggono subito frequenti scenari di gara che si ripresentano. Durante la partita si nota che i goal, in alta percentuale, derivano da ribattute, contropiedi e tiri da fuori con le dimensioni sperimentate, e ciò ci può fornire un suggerimento valido su quali situazioni di gara allenare. Nel caso di giovani calciatori di 8 e 9 anni, di certo, intervenire a praticare queste casistiche non è la priorità, ma, in età più adulte, capiamo come una semplice registrazione e video analisi delle sedute possa essere uno strumento utile per osservare aspetti che si ripresentano, senza affidarci a programmazioni ideali che non considerano le caratteristiche e l’unicità della propria squadra.

Conclusioni

Questo studio ha voluto effettuare una prima analisi sulle potenzialità e infinite possibilità della manipolazione dei constraints, col fine di investigare il legame tra un vincolo e la forma di risposta emergente. Lo sviluppo delle abilità e delle competenze nella crescita sportiva dipende in modo significativo, se non determinante, dall’approccio all’insegnamento dell’allenatore. Un apprendimento efficace avviene grazie alla partecipazione attiva del soggetto, specificatamente attraverso esperienze di gioco in cui i comportamenti sono scelti, piuttosto che impartiti. L’idea che si riscontra più frequentemente negli allenatori di oggi è la ricerca del gioco descritto dai libri, teoricamente ideale. L’idea di riproporre esercizi ordinati, stilisticamente perfetti durante gli allenamenti, eliminano una parte fondamentale del gioco, l’imprevedibilità. L’ordine che viene immaginato si sfuma durante le competizioni, che presentano situazioni sempre differenti, inattese e uniche. Allenare al caos aiuta i giocatori a prepararsi ad affrontare situazioni nuove, abituandosi al processo di presa di informazioni, analisi e scelta. In generale, ciascuna delle proposte dovrebbe stimolare la fantasia, promuovere l’esplorazione e la familiarizzazione di nuove casistiche che il gioco può presentare.
La gara si può ritenere dunque, il miglior allenamento poiché, nella sua globalità, si riversano sempre tutte le sue componenti: capacità fisiche, tecniche, tattiche, psicologiche, cognitive e sociali. L’utilizzo dei contesti simili al gioco reale offre una trasferibilità maggiore in competizione, poiché permette ai giocatori di effettuare esperienze con dinamiche e stimoli che ne si avvicinano maggiormente. Scoprire, essere creativi e scovare vie per risolvere i problemi della partita, riporta lo stesso accoppiamento informazione-movimento che avviene in gara, stimolando l’emergere di soluzioni di movimento funzionali alla stessa. Questo studio ha rivelato che variando alcune caratteristiche della stessa proposta, senza l’intervento dell’allenatore a indirizzare il gioco, le prestazioni cambiavano. Tali prove confermano che la manipolazione dei vincoli può influenzare i giocatori a scegliere un agire, piuttosto che un altro. Gli allenatori dovrebbero essere ampiamente incoraggiati a variare i contesti di pratica, per variare il ventaglio di possibilità di apprendimento, siano essi tramite vincoli di compito specifici o non specifici. Il tutto deve essere guidato dall’intervento del coach stesso, che deve rinforzare i comportamenti positivi che emergono, per indirizzare i compagni a emularli. Il feedback è un altro degli strumenti chiave a disposizione per intervenire nelle proposte, che deve essere utilizzato, però nel corretto modo. Feedback di risultato incidono, come abbiamo trattato nel capitolo dedicato, molto più efficacemente rispetto ai commenti di focus interno.

Anche la quantità è importante, che deve essere tale da permettere ai giocatori di sviluppare capacità di autoanalisi, senza creare la cosiddetta “dipendenza da feedback”.
Nonostante ciò, l’uso e la frequenza dei constraints devono essere ben ponderati, non solo alla squadra, bensì individualizzata anche a ciascun giocatore, in modo tale che l’acquisizione di nuove abilità possa essere graduale e progressiva, secondo le capacità di ciascuno. Ogni calciatore ha caratteristiche, stile di gioco, ma anche lacune e personalità differenti perciò bisogna saper conoscere e stimolare attraverso vincoli individualizzati. Ognuno, inoltre, è unico e deve essere considerato come tale, non solo in merito alle caratteristiche fisiche, tecniche e tattiche, ma come individuo con un passato e inserito in un contesto sociale, poiché è ciò che lo influenza maggiormente nelle risposte agli stimoli, anche fuori dal rettangolo verde. Ricordiamo che il soggetto è in grado di percepire solo ciò che l’ambiente gli permette di fare in base alle proprie capacità e caratteristiche, chiamate da Gibson affordances, o opportunità di azione. L’obiettivo di ogni allenatore deve essere saper capire cosa un giocatore può riconoscere, perciò deve presentare contesti stimolanti per le sue potenzialità, per massimizzare l’apprendimento e la crescita.
L’imprevedibilità del gioco, che appunto è determinata dalle scelte dei calciatori, è ciò che rende complesso l’utilizzo dei constraints, sia nella progettazione pratica dei compiti che nella conduzione e adattamento nello svolgimento della seduta stessa. Può accadere che i comportamenti che si vogliono ricercare non emergano o, ancor più, che ne emergano altri, che non erano stati considerati. L’allenatore deve essere in grado di osservare e decidere se e come intervenire per adattare la proposta. In altre parole, la sfida dell’allenatore è quella di progettare ambienti di pratica che forniscano confini controllati di esplorazione in contesti dinamici attraverso vincoli pertinenti, non solo all’intera squadra, ma anche al singolo.

È importante definire alcune limitazioni di questo studio, nonostante si sia cercato di standardizzare l’ambiente il più possibile. Prima di tutto, è necessario evidenziare la piccola dimensione del campione e il periodo di familiarizzazione ridotto. Una variabile che non permette di generalizzare, ovviamente, è l’età dei ragazzi che correla i risultati alla loro categoria. Ulteriori ricerche dovrebbero estendere questo lavoro, analizzando questi e altri vincoli situazionali (ad esempio, modificando il numero/posizione delle porte, variare la forma dei campi di gioco, eccetera), con partecipanti di altre categorie di età. In generale, sviluppi futuri potrebbero approfondire quali e in che modalità i constraints offrono differenti opportunità di azione, con lo scopo di creare un mappa che correli ciascun vincolo ai relativi comportamenti emergenti. Questo strumento aiuterebbe a guidare i coach nella programmazione delle sedute in relazione all’obiettivo che si sceglie di perseguire, e, di conseguenza, al comportamento che si vuole far sperimentare. Il tutto, sempre tenendo a conto l’individualità dei soggetti e delle circostanze, in riferimento a età, livello e ambiente, non assumendo il risultato come assoluto, ma più come una linea guida.

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