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“FootSofia”: Abbassati se vuoi ricevere – Linguaggi verbali e giochi linguistici

16 Luglio 2020

“FootSofia”: Abbassati se vuoi Ricevere – Linguaggi verbali e Giochi linguistici

Partita di fine allenamento. Davidino, il portiere, ha la palla tra le mani e la vuole rimettere in gioco subito. Vuole trovare un compagno libero a cui appoggiarla per partire a giocare da dietro, come è ormai abituato a fare. Lo cerca con lo sguardo. Andrea di solito non si allena con noi, è in un altro gruppo; ma oggi è aggregato a noi e ha pure svolto un ottimo allenamento. Eppure durante la partita finale sembra smarrito. Davide continua a cercare soluzione con lo sguardo e Andrea, che sta giocando da difensore ed è salito qualche metro dopo che il portiere ha recuperato palla, rappresenterebbe in effetti la soluzione migliore per offrire la più vicina possibilità di passaggio e partire da dietro. Eppure, appunto, sembra smarrito e sta guardando altrove. Gli dico: ”Andrea, guarda!”. Ma anziché voltarsi verso il compagno e la palla, guarda me, ancora più smarrito. Gli dico “Abbassati se vuoi ricevere!”. Andrea piega le ginocchia e si “abbassa” veramente, accovacciandosi a terra…

Ho sempre pensato che questo episodio (realmente accaduto) fosse frutto dell’inesperienza di un mister alle prime armi e della sua inadeguata formae mentis, tanto più con la categoria Pulcini, e del fraintendimento dovuto a un linguaggio inappropriato per l’età e la categoria, nello stile troppo direttivo (Guarda! Abbassati!) e nel contenuto troppo, diciamo, orientato ad una scelta “tattica”. Eppure, a ripensarci, c’era in gioco qualcosa di diverso e di più ampio respiro.

Dopo una vita dedicata allo studio del linguaggio il filosofo Wittgenstein nelle sue Ricerche Filosofiche arrivò alla conclusione che non esiste qualcosa come un linguaggio umano, identificabile in una forma e in una essenza ben determinata; esistono invece usi del linguaggio in particolari contesti, diverse pratiche linguistiche, e le regole per esempio grammaticali della lingua si danno solo all’interno di queste pratiche, non prima di esse.

E’ nella pratica e nell’uso del linguaggio che emerge la regola, e non la regola che determina l’uso. Per farlo capire meglio lo stesso Wittgenstein parla dei giochi. Se guardiamo ai vari giochi e gruppi di giochi (da tavolo, di carte, con la palla, ecc.) non riusciamo a vedere qualcosa di comune a tutti, IL gioco (e infatti i tentativi di definire teoricamente il gioco nella sua essenza, un gioco in quanto gioco comune a tutti, non sono mai riusciti ad essere onnicomprensivi), ma “una rete complicata di somiglianze, che si sovrappongono e si incrociano a vicenda”.

Il gioco del calcio, ad esempio, avrà qualcosa in comune, somiglia a qualche altro, ma è al contempo qualcosa d’altro rispetto ad ogni altro gioco; non vi è nessuna essenza ravvisabile (alcuni giochi sono competitivi, altri no; alcuni richiedono uno sfidante altri si possono giocare in solitaria, alcuni sono individuali altri collettivi ecc.).

E infatti, non riuscendo a definirlo, non c’è miglior spiegazione di un gioco che farlo vedere, giocarlo (pensiamo a quando dobbiamo spiegare un gioco di carte a qualcuno). Lo stesso accade per Wittgenstein con i linguaggi, essi si comprendono solo con l’uso: “comprendo una proposizione in quanto la adopero. La proposizione c’è perché si operi con essa” (o ancora: “il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio”).

Wittgenstein fa incontrare l’ambito del gioco con quello del linguaggio e parla di giochi linguistici come modi fondamentali di apprendere un linguaggio. I giochi linguistici sono i linguaggi più semplici e primitivi con cui impariamo una lingua. Servono ad esempio al muratore e al suo novello aiutante nel lavoro (l’esempio, straordinario, è dello stesso Wittgenstein): “mattone”, “martello”, “lastra”, “trave”. Quando il muratore grida “mattone” l’aiutante porge il mattone, quando dice “martello” il martello e via dicendo.

Il gioco linguistico fa bene capire, insomma, che i linguaggi sono l’uso che ne facciamo nelle diverse pratiche. Prima di essere quell’organismo molto complesso che usiamo tutti i giorni, è una pratica elementare.

Allo stesso modo credo che anche nel calcio più che di linguaggio si debba parlare di diversi linguaggi o pratiche linguistiche condivise nel gruppo e nel contesto (che tengano conto del gruppo e del contesto), che nascono e si definiscono nell’uso che ne facciamo.

Quel “abbassati” non era inappropriato in generale, ma rientrava semplicemente in una pratica che Andrea non riconosceva (e che gli altri bambini iniziavano invece a riconoscere); non intercettava il suo vissuto, le sue emozioni, la sua pragmatica del gioco.

Le parole che usiamo sono fondamentali, ma senza essere puristi della comunicazione. Con i piccoli non si devono usare certi termini troppo “tecnici”, si dice. Io credo che invece si tratti semplicemente di costituire e condividere il nostro gioco linguistico: e in questo gioco starà a noi decidere se parlare di “cacciatori” “lepri” “conquistare la fortezza avversaria”, oppure di “attrattori”, “invasori”, “aggiramenti” ecc.

Se il linguaggio costituisce delle regole di interazione, non ci sono, come dice Wittgestein, regole più giuste a priori, ma esse nascono con l’uso; anzi parlare di regola, dice sempre il filosofo, significa parlare di concordanza, accordo (Übereinstimmung), ma non tanto nel senso di negoziazione o contrattazione (decidiamo  in anticipo, a priori, che queste saranno le parole chiave che useremo), quanto piuttosto di sintonia, accordo musicale.

Ecco che la parola deve regolare, nel senso di entrare in sintonia, deve concordare nel centrare il nostro agire, rispecchiare cioè lo stile di gioco, il senso che diamo al gioco. In maniera primordiale, elementare, come il gioco linguistico del muratore che serve a imparare non solo un linguaggio, ma un linguaggio dell’azione. La parola deve risuonare in maniera condivisa, cioè intercettare emozione (e-muovere, ciò che muove all’azione). Vibrare nelle corde del gruppo. E ogni gruppo costituirà il suo proprio gioco linguistico.

In questo senso, anche le dissonanze, come quella avvenuta con Andrea, sono formative e preziose: sono lo iato, lo spazio, l’apertura, l’errore che permette di ri-flettere insieme sul gioco linguistico che stiamo giocando.

Per inciso, ciò che vale per le parole vale anche per i concetti di gioco (regole di interazione nel gioco). Non sono teoria, sono azione. Sono espressione della pratica. Non si comprendono concetti o principi spiegandoli, ma agendoli; anzi, sono i principi che emergono dal gioco, non essi che definiscono il gioco in anticipo. I principi si giocano, non si teorizzano. I significati dei principi sono l’uso che ne facciamo. L’azione e l’emozione che esprimono. E non ce ne sono di più giusti di altri; sono quelli che abbiamo deciso di condividere nel gruppo e nel contesto. Sono, insieme alle parole, il nostro gioco linguistico.

Ma se questo gioco linguistico, se queste parole e questi principi di gioco sono troppo specifici e particolari, non si rischia che essi siano poco funzionali al percorso di apprendimento? Se si parla ai giovani in termini complessi di “half-spaces”, “zona cieca”, “fissare” o che so io, non si rischia che fuori dal dominio specifico di quelle parole che magari imparerà ad usare, nel senso di agire, il calciatore sia “spaesato” nel resto del suo percorso di apprendimento? (Allo stesso modo, i principi di gioco troppo “particolari” non deviano da un percorso di apprendimento “generale”?) Non lo credo.

Questo fa parte della vita di tutti i giorni, entrare in contatto e partecipare a diversi registri e giochi linguistici (più formali, meno formali, più tecnici, meno tecnici ecc…). Ci saranno tra loro, come diceva Wittgenstein, somiglianze di famiglia, sovrapposizioni, incroci. E in questo senso far emergere dei giochi linguistici comuni, di parole e di concetti, all’interno di una società (si parla di principi comuni all’interno di un settore giovanile), delle “somiglianze di famiglia” appunto, faciliterà la lingua pratica che parlerà il giocatore, il suo modo di interpretare il gioco. Ma senza dimenticare che anche le differenze e le dissonanze, come anticipato, sono importanti.

E l’abilità di passare attraverso queste somiglianze e differenze, l’abilità di passare da un gioco linguistico all’altro, di saperli adoperare in un determinato contesto; è una forma di adattamento. Cioè di apprendere adattandosi all’ambiente. Se, come dice Wittgenstein, “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”, passare attraverso diversi linguaggi è guadagnare diverse prospettive sul mondo. Sul gioco nel nostro caso.

Con Andrea ci siamo fermati un attimo. La parola inizia a dire qualcosa solo quando ci mettiamo a ridere, magari ride anche lui (quando c’è emozione), quando correggiamo e facciamo vedere (quando c’è azione): quando riprendiamo a giocare.

Sennò non ha nessun valore, è blocco, pietra, smarrimento. La parola ci dice qualcosa solo nel gioco, dentro una certa pratica.

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