Super Tele: La rivoluzione firmata Arrigo Sacchi
3 Settembre 1986, in Coppa Italia il Milan dell’ambizioso presidente Berlusconi affronta il Parma neopromosso in serie B. A San Siro, il tabellone a sorpresa recita vittoria finale per i ducali grazie a un assolo del giovane Fontolan.
Sulla panchina gialloblu un tecnico sconosciuto, che viene da Fusignano, in provincia di Ravenna, e non ha mai militato prima come calciatore professionista. Si chiama Arrigo Sacchi ed è pronto a scrivere la Storia del Gioco.
Terzino sinistro senza speranze del calcio dilettantistico (“scoordinato, ma pieno di buona volontà” diceva di lui il suo prof. di educazione fisica), il giovane Arrigo inizia presto la carriera di allenatore e negli anni Settanta si siede sulla panchina della squadra del proprio paese, poi dell’Alfonsine e del Bellaria navigando fra Seconda Categoria e Serie D.
Suo padre ha una ditta di calzature, ed è grazie a numerosi viaggi di lavoro come venditore all’estero che Sacchi studia e approfondisce il calcio straniero e la mentalità spesso differente dal classico difensivista gioco all’italiana.
Attraversa Germania e Olanda, Francia e Svizzera, comprendendo come la differenza nello stile di gioco fosse principalmente imputabile a fattori culturali più che tecnici o atletici. Studia e osserva il calcio continentale, scoprendo con meraviglia la maggiore vocazione offensiva e organizzazione collettiva, in particolare quella della Scuola Olandese.
«Il vero problema era la nostra mentalità, pigra e difensiva. Abbiamo una cultura prettamente reattiva, nel calcio la fase offensiva era sempre stata deputata alla fantasia del singolo.»
Il laboratorio di Sacchi parte dai bassifondi del calcio di periferia, prima di illuminare i palcoscenici internazionali. Carles Balestra, terzino goleador delle prime squadre di Arrigo, a Gianni Mura ha raccontato: «Schemi, pressing, fuorigioco li predicava già. Appena sentiva una novità, la sperimentava. Un giorno per combattere lo stress ci ha fatto stendere coi piedi alti e ci ha messo le cuffie con la musica classica. Di 12 ci siamo addormentati secchi in 9.»
Non ha paura di proporre un nuovo modo di fare calcio, malgrado il suo curriculum privo di esperienze ad alto livello è disposto a mettersi in gioco sin dalle sue prime avventure in panchina. «Avevo ventisei anni – ricorda Sacchi – mentre il mio portiere trentanove e il mio centravanti trentadue. Dovevo convincerli e portarli dalla mia parte a tutti i costi.»
Nel 1982 vince lo Scudetto Primavera con il Cesena e dopo alcune stagioni fra la panchina del Rimini in serie C1 e la Primavera della Fiorentina, Arrigo Sacchi diventa nell’estate del 1985 il mister del Parma, appena retrocesso.
In un solo campionato Sacchi centra il rientro in serie B ed è con proprio con i ducali che mette in mostra il suo gioco rivoluzionario a casa del Milan.
Per ogni grande ondata di cambiamento, c’è bisogno di un contesto pronto a recepirla, di un humus dove possono crescere rigogliosi gli splendidi frutti di un cambio epocale.
Silvio Berlusconi è il nuovo presidente del Milan ed è un imprenditore desideroso di una vetrina di successi e vittorie. Irrompe nel calcio italiano con potenza economica importante, la voglia di segnare un’era ed è pronto a spostare l’asse sportivo verso lo spettacolo della televisione e l’organizzazione aziendale di una società sportiva. Si innamora del gioco e della visione di Sacchi e nel 1987, dopo una sontuosa campagna acquisti durante la quale arrivano i due tulipani Gullit e Van Basten, oltre ad Ancelotti, Colombo e altri nomi, gli affida le sorti della squadra rossonera.
Arrigo oramai promesso alla Fiorentina, grazie al blitz di Braida diventa ufficialmente il nuovo tecnico del Milan.
Ma quali sono i capisaldi del gioco sacchiano, che tanto gli occhi fecero brillare alla dirigenza rossonera?
Possiamo partire da un concetto espresso dallo stesso Sacchi e riportato da Jonthan Wilson: «Le grandi squadre hanno avuto tutte una cosa in comune tra di loro nel corso della storia, indipendentemente dall’epoca o dalle tattiche di gioco. Erano padroni del campo, ed anche della palla. Ciò significa che quando una squadra ha la palla può dettare il gioco, e quando si difende controllare lo spazio.»
Lo spazio è il concetto principale su cui Sacchi lavora per dare forma al pressing maniacale e collettivo che piomba come un asteroide sul calcio dell’epoca. Ai riferimenti canonici di palla, avversario e compagni, i giocatori di Sacchi devono aggiungere l’attenzione alle zone di campo da coprire.
I sacri testi di Coverciano definiscono il pressing come “un’azione difensiva collettiva e coordinata, attraverso la quale la squadra toglie tempo e spazio al portatore di palla avversario e ai suoi appoggi.” Tale azione può essere portata a diverse altezze del campo a seconda dell’impostazione strategica che si vuol dare alla gara in relazione alle caratteristiche della squadra avversaria. Infatti, il Milan di Sacchi alterna diverse tipologie di pressing durante la stessa gara.
Nel sistema a zona pura ideato da Sacchi il pressing è un’arma rivoluzionaria poiché portata in maniera sistematica e aggressiva. Il Milan inizia a difendersi in avanti, nel tentativo di dominare sempre la gara anche durante la fase di non possesso.
La squadra pertanto risulta essere sempre in controllo e grazie allo straordinario sincronismo della linea difensiva a 4 comandata da capitan Baresi – al quale al suo arrivo Sacchi fece visionare numerose videocassette del modernissimo libero del Genoa Signorini per apprendere il nuovo stile di gioco – riesce a tenere i reparti sempre corti e uniti. Restringere il campo quando la palla ce l’hanno gli altri per recuperarla prima possibile.
Il pressing è accompagnato alla tattica del fuorigioco e a ritmi di gioco davvero infernali per l’epoca.
Il calcio di Sacchi accelera il gioco e lo guida nel futuro, con una metodologia che all’inizio ha un impatto devastante nei giocatori stessi, poco o per nulla abituati non solo a una preparazione atletica sfiancante ma soprattutto alla ripetizione dogmatica e continua degli esercizi tattici necessari a far diventare le idee di Sacchi degli automatismi sul campo di gioco.
Per Arrigo Sacchi comandare il gioco è un imperativo. Diventare padroni del campo e dominare attraverso la palla nella fase di possesso, controllare lo spazio quando il pallone è degli avversari con una riaggressione in avanti che diventa un punto di forza mentale, oltre che sul piano del gioco, impedisce agli avversari di ragionare e di provare a giocare secondo le proprie abitudini.
«Se vuoi passare alla storia non è sufficiente vincere, bisogna convincere, ricercare lo spettacolo e dare gioia e divertimento ai tifosi.»
Jorge Valdano, grande intellettuale del calcio, sottolineerà più volte come il Milan di Sacchi è rimasto nella memoria della gente più di quello di Capello, che pur vinse più titoli, per i sentimenti e il fascino che è stato capace di generare. Andare al Bernabeu e prendere per il collo il Real Madrid nel suo tempio, proporre un calcio propositivo e coraggioso in egual misura in casa e in trasferta, è l’espressione della grandezza delle idee di Sacchi e della sua ossessiva ricerca della perfezione.
Con Sacchi la squadra inizia a muoversi come un corpo unico in tutte le fasi di gioco. Linee strette e intensità, uno spartito in cui gli attaccanti diventano i primi difensori, i reparti sono corti e non vi è più una netta separazione rispetto ai momenti del gioco, con una vocazione netta verso il Calcio Totale olandese che tanto aveva affascinato il Vate di Fusignano.
Per Sacchi l’inizio è in salita. I primi risultati sono negativi, la stampa e i media ancorati alle vecchie logiche breriane, spesso incentrate su catenaccio e contropiede, dimostrano ostracismo verso questo allenatore venuto dal nulla. Sacchi è dipinto come un eretico e i giocatori stessi, di fronte a quel cambio netto di modello di gioco che investe i piani tattico, tecnico, fisico e psicologico, si approcciano con difficoltà ai nuovi metodi dell’allenatore che sulle tribune di Milanello diventerà famoso per ordinare col megafono (dall’alto migliora la visione d’insieme) scalate, piramidi e diagonali ai suoi giocatori.
Qui Sacchi si incontra per sua fortuna con il substrato innovativo del Milan di Berlusconi che al primo momento di difficoltà schiera tutta la Società in difesa del proprio allenatore, ribadendo di fronte al gruppo e ai media la completa e assoluta fiducia nei confronti del lavoro del nuovo tecnico.
Malgrado l’eliminazione dalla Coppa Uefa ad opera dell’Espanyol e un inizio di campionato difficile, Berlusconi piomba a Milanello per mettere le cose in chiaro di fronte alla squadra: «Il mister resta, voi non so.»
Senza più alibi, il Milan decolla e a quanti lo criticavano per la sua mancanza di pedigree da calciatore professionista Sacchi risponde con la sua storica massima secondo cui “un buon fantino non deve per forza essere nato cavallo.”
In fase di possesso Sacchi predilige un gioco corto, fatto di fitte trame rasoterra, un’occupazione razionale dello spazio, incessanti smarcamenti senza palla, lo sfruttamento delle catene laterali con l’appoggio costante delle sovrapposizioni dei terzini, la libertà per alcuni giocatori in fase offensiva di svariare fra le linee (es. Donadoni), la pretesa di avere sempre una massima ampiezza e il marchio di fabbrica in fase offensiva con i movimenti combinati dei due attaccanti – uno corto e uno lungo – per poter invadere sempre almeno con minimo cinque uomini l’area di rigore avversaria.
Anche i difensori centrali sono coinvolti nell’azione offensiva, sia nella fase di costruzione dal basso, sia nella fase di invasione con inserimenti anche nella zona centrale di Baresi e compagni.
Mai speculativo, il calcio proposto da Sacchi ricerca la vittoria con la ferrea volontà di determinare sempre l’andamento della gara.
In “La Piramide Rovesciata”, Sacchi spiega la propria filosofia: «Il giocatore ha bisogno di esprimersi all’interno dei parametri stabiliti dall’allenatore. E questo è il motivo per cui l’allenatore deve riempire la testa del giocatore con tutti gli scenari, gli strumenti, i movimenti e le informazioni possibili. Poi spetta al giocatore prendere delle decisioni in base a ciò che ha immagazzinato. Voglio delle persone con l’intelligenza per capirmi e lo spirito per mettere quell’intelligenza al servizio della squadra.»
Con palla coperta, la linea difensiva sale in blocco e il braccio alzato di Baresi resterà nella memoria di tutti gli appassionati come uno dei simboli di quel Milan.
Una squadra di grandi giocatori che oltre ai tre olandesi (con Rijkaard voluto a tutti i costi da Sacchi che costrinse Berlusconi a un clamoroso dietrofront sul suo pupillo argentino Borghi che avrebbe occupato il terzo posto di straniero) conta su un blocco italiano di grande qualità.
Maldini, Donadoni, Ancelotti sono calciatori di alto livello che insieme imparano a muoversi come un’orchestra.
Il 19 aprile del 1989 sboccia in tutta la sua grandezza la semina del lavoro di Sacchi e le qualità immense di quel gruppo di giocatori. Dopo un’andata sontuosa, conclusasi però sul pareggio di 1-1, il Milan affronta in casa il Real Madrid e con una prestazione meravigliosa annichilisce i quotati rivali con un risultato finale che non lascia spazio all’immaginazione.
La vittoria sui madrileni per 5-0 guida i rossoneri sulle ali dell’entusiasmo alla prima Coppa dei Campioni dell’era Berlusconi, conquistata in finale con lo Steaua Bucarest. Quella notte Barcellona è una succursale di Milano, dove accorrono con un esodo di massa decine di migliaia di tifosi a godere di una partita perfetta che termina con quattro reti a zero e due doppiette a testa per Gullit e Van Basten.
È l’apice della carriera di Sacchi e l’espressione massima delle sue idee, che dal calcio dilettantistico di Fusignano conquistano una platea di tifosi e appassionati del gioco in tutto il mondo.
In una lunga intervista a Paolo Condò, Sacchi racconta: «Volevo che fosse un gruppo compatto, che si muovesse in modo organico, avendo sempre una superiorità numerica nei pressi della palla. Il Milan assieme all’Ajax di Michels e al Barcellona di Guardiola è stata una squadra che aveva una grande idea che coinvolgeva tutti i giocatori. Tutti quanti dovevano praticare il calcio sia in senso offensivo, sia difensivo, essere polivalenti in una continua evoluzione uniti dal filo invisibile che si chiama Gioco. Il Gioco è paragonabile alla trama di un film, al copione della prosa. Diceva Brecht che è stato un grande commediografo “senza un copione, può esserci solo improvvisazione”. Quando Van Basten un giorno mi disse “così non improvviso”, gli risposi “No, tu non te ne stai accorgendo ma grazie agli allenamenti dove ripetiamo tutto quello che capiterà in partita, il tuo sistema nervoso l’ha recepito e improvvisa la cosa più giusta per il momento”.»
Organizzazione e intensità sono curate in maniera talmente maniacale che in pochi anni finiscono per creare attriti con alcuni dei calciatori più rappresentativi, in primis Van Basten cui Sacchi riserva qualche panchina imprevista dopo alcune sue dichiarazioni alla stampa.
Le pretese di Sacchi, il furore e la meticolosità che chiede ai giocatori – come per tutti quei tecnici che chiedono anima, corpo, sacrificio e disponibilità massimale in ogni momento – diventano in breve tempo insostenibili. Lo stress anche per Sacchi aumenta e finisce per consumare in breve tempo la sua fiamma.
Con la Nazionale, dove prova fra mille difficoltà dovute in primis alla mancanza di lavoro quotidiano sul campo a proporre il proprio stile, diventa vicecampione del Mondo a Usa ’94, salvo imboccare poi in breve tempo una parabola discendente che passa da un breve e dimenticabile ritorno al Milan, Atletico Madrid e Parma.
Qui si potrebbe ancora raccontare di Sacchi in azzurro e del suo rapporto con Roberto Baggio, dei suoi emuli che portarono poi negli anni successivi a un approccio integralista e decisamente muscolare del calcio, e di come e quanto sia complicato scalfire mentalità vetuste partendo dal basso, ma in fondo è un’altra storia.
Della parabola e dell’ascesa di Sacchi e del suo calcio resta un’importanza fondamentale che ha completamente ribaltato i meccanismi del gioco all’italiana e della sua mentalità sparagnina, consolidati nei decenni precedenti.
Sacchi ha portato in avanti l’evoluzione dello sport stesso con la sua capacità di proporre un calcio protagonista, dove il talento viene messo in rilievo dalla squadra, attraverso uno spirito di costante ricerca del dominio e della vittoria per mezzo di un gioco offensivo, in cui i giocatori sono in grado di muoversi sempre insieme come un corpo unico.
Gli stessi metodi di allenamento di Sacchi, decisamente innovativi all’epoca, sono stati presi a modello negli anni a venire, e le sue idee hanno influenzato persino le proposte dei maestri odierni come Guardiola e Klopp che non hanno mai nascosto di avere studiato e ammirato il suo Milan.
Anche sul versante degli ingaggi, come raccontato da Gianni Mura, Sacchi rivoluziona l’ambiente inaugurando la stagione dei premi a vincere e strappando in Nazionale l’ingaggio record di 3 miliardi e mezzo lordi di lire, una cifra record per l’epoca.
E per chiudere questo viaggio dentro alla parabola incendiaria di Sacchi e al cambiamento radicale portato dalle sue idee lascio ancora la parola a Gianni Mura:
“Il Milan di Sacchi si continua a dire, forse perché sarebbero troppi i giocatori simbolo. Questa squadra ha cambiato l’immagine del calcio italiano, rinunciatario e timido in trasferta, catenacciaro a oltranza, sempre teso a portare a casa il massimo risultato col minimo sforzo. In casa o fuori, per quel Milan era la stessa cosa, dopo qualche minuto gli altri erano barricati (all’italiana) nella loro area. Era un Milan che univa il vigore fisico (Gullit, Rijkard, Costacurta) alla tecnica (Van Basten, Donadoni, Maldini). Con un’intensità, per dirla con Sacchi, fin lì sconosciuta. Il Milan toglieva spazio, toglieva fiato. Paradossalmente, si difendeva attaccando, senza mai sguarnire l’ultima linea, a costo di ricorrere sistematicamente al fallo tattico e al fuorigioco insistito, e regolato dal braccio di Baresi.”
Foto: https://www.pianetamilan.it