Super Tele: Lo chiamavano Francesco Totti – un film visto da vicino, di Francesco Marcon
Da ragazzo la Roma è sempre stata una delle mie squadre preferite fra quelle che non rientravano alla voce squadra del cuore, ovvero il Milan.
Non so se i giallorossi mi stessero così simpatici perché adoravo Paulo Sergio e Marco Delvecchio, protagonisti del tridente del primo Zeman, oppure per l’attacco atomico della Roma di Capello che schierava fuoriclasse come Batistuta, idoli esotici come Nakata e l’Aeroplanino Vincenzo Montella, che era uno dei miei calciatori preferiti.
Nel corso degli anni erano passati in giallorosso anche centrocampisti di lotta e di governo, come Tommasi, Thern, Cristiano Zanetti, Cappioli, Emerson, che mi piacevano tanto poiché sapevano abbinare corsa e interdizione a doti di regia e geometrie.
E poi c’erano i due pendolini Cafu e Candela sulle fasce, una tifoseria accesa e colorata, con alcuni fra i migliori cori e refrain d’Italia. In generale mi entusiasmava quel pianeta caciaro, ironico e passionale, così lontano dalle atmosfere fredde e rigide di ambienti come quelli di Milan e Juve.
Ah, poi con la Roma giocava il Capitano, quello con il Dieci sulle spalle.
Romano de’ Roma, còre de sta città.
Il suo nome è Francesco Totti e – a mio parere – insieme a Baggio e Maldini è stato il calciatore italiano più forte degli ultimi tre decenni.
Sulla sua storia è da poco uscito un film, il titolo è “Mi chiamo Francesco Totti”, regia di Alex Infascelli. È la trasposizione cinematografica dell’autobiografia del fuoriclasse giallorosso, messa precedentemente sulle pagine del libro “Un Capitano”, scritto con Paolo Condò.
L’ho visto da poco su Sky e devo dire che si tratta di una pellicola che mi ha lasciato addosso molte emozioni diverse, tanti sorrisi e qualche punto interrogativo, oltre a inevitabili brividi di commozione per questa vicenda sportiva quasi unica.
Punto di forza del film è la narrazione affidata interamente alla voce di Totti in prima persona, che rende tutto maggiormente soggettivo e vicino al suo punto di vista intimo.
Di seguito provo a riassumere ciò che più mi ha colpito.
PARLIAMO DI CALCIO
Ci sono alcuni spunti interessanti che lo stesso Totti fornisce. Rivedendo una giocata di sé adolescente, restringe l’attenzione sulla sua testa che, prima di ricevere palla da rimessa laterale, muove per prendere informazioni. È la percezione dell’intorno.
«Io giravo la testa per guardare dove stava il mio compagno o l’avversario. Un altro bambino non lo fa, guarda la palla».
Quella che i tecnici chiamano intelligenza emotiva, il feeling straordinario in campo con Cassano, l’importanza di sentirsi vicini, di trovarsi:
«Parlavamo la stessa lingua con i piedi, giocavamo ad occhi chiusi. Eravamo in simbiosi su tutto, eravamo diventati un tutt’uno...».
L’ambiente, ovvero quanto conta il fatto di incontrare la persona giusta al momento giusto, le condizioni che permettono al talento di svilupparsi e fiorire, nel suo rapporto con Carlo Mazzone. «Per farmi crescere, quando i giornalisti spingevano per farmi giocare, lui sceglieva all’opposto. E poi al derby mi butta dentro, non avevo ancora 18 anni e avrei fatto qualsiasi cosa in quel momento.» L’ambiente è anche Giannini, capitano simbolo della Roma, che per il diciottesimo compleanno si presenta a sorpresa alla festa del ragazzino Totti, con una dimostrazione impressionante di fiducia nei mezzi del giovane compagno di squadra, sicuramente importante per Totti, per inserirsi con confidenza all’interno dello spogliatoio.
Quanto incida nella carriera di un calciatore professionista il destino, cioè quella concatenazione di situazioni che indirizzano la storia verso una precisa direzione. Nel ‘96 Carlos Bianchi siede sulla panchina della Roma. L’allenatore argentino chiede alla società il finlandese Litmanen, fortissimo trequartista dell’Ajax. Totti è considerato un giovane acerbo, per lui si profila una cessione in prestito alla Sampdoria. A febbraio all’Olimpico va in scena il triangolare Città di Roma, un mini-torneo amichevole organizzato appositamente per avvicinare Litmanen e dimostrare alla società la validità dell’investimento. In campo scendono quindi i giallorossi, gli olandesi e il Borussia Mönchengladbach. Totti avrebbe dovuto essere con la Under 21, ma non fu convocato. È la sua sliding-door, una sera che cambia la sua storia per sempre. Nelle due partite segna due gol stratosferici e alla fine del torneo è lo stesso presidente Sensi a confermarlo in modo categorico in diretta tv: «Totti è della Roma e rimane alla Roma.» Con tanti saluti a Bianchi.
Zeman e Lippi, fra formazione e psicologia. Se l’avvento del Boemo, coi suoi lavori fisici massacranti, inizialmente spaventa, poi al tecnico Totti riconoscerà la capacità di averlo migliorato dal punto di vista atletico e di aver cercato di valorizzarlo senza mai discuterlo. «Ogni volta che scendevo in campo mi diceva di tirare da qualsiasi posizione. Mi ha strutturato fisicamente, facendomi diventare Capitano.» Lippi, invece, interviene il giorno dopo dell’operazione che Totti subisce nel 2006. Si precipita a trovare il suo asso in clinica, rincuorandolo con poche ma decise parole. «Mi disse che mi avrebbe aspettato fino alla fine, pure con una gamba sola. Sei quello che ci farà vincere i Mondiali. Vederlo lì dopo l’intervento mi ha dato la forza per iniziare quella scalata che mi avrebbe portato in Germania.» Interessante vedere da vicino come ogni allenatore – indipendentemente da carattere, metodo e visione del calcio – possa contribuire in maniera importante ad arricchire e migliorare giocatori professionisti all’apice della propria carriera. Le logiche del rapporto allenatore – giocatore sembrano poi aderenti a quelle che si riscontrano a livelli differenti, anche di quel calcio lontano dai riflettori.
L’omaggio del Madrid e gli onori tributati dai colleghi. Al Bernabeu Totti avrebbe potuto giocarci con la camiseta blanca, ma al posto suo c’è andato Cassano. Per la standing ovation, all’ ingresso in campo di Totti al posto di El Shaarawy, non è semplicemente tutto il pubblico ad alzarsi in piedi. Lo applaude Marcelo, schiaccia un cinque rispettoso Casemiro, a fine gara Ramos esulta per la maglia firmata del Capitano giallorosso. Emozionante vedere attestati di stima, da parte di colleghi al top planetario. Quanto avrebbe vinto Totti lontano da Roma? Sarebbe stato lo stesso così leggendaria la sua carriera se avesse smesso la maglia giallorossa?
Il rapporto con Spalletti. Dall’idillio del primo ciclo romanista dell’allenatore toscano, con Spalletti che porta all’apice il suo gioco fatto di tagli, combinazioni veloci e frequenti interscambi grazie all’intuizione di schierare proprio Totti come “falso nueve”, alla frattura insanabile avvenuta durante la seconda avventura di Spalletti, che coinciderà con l’addio di Totti al calcio giocato. Da una parte è lo stesso Totti a raccontare dello splendido rapporto creato nella prima fase, con Spalletti che si allena insieme a lui per supportare il recupero dall’infortunio. Dall’altra, invece, al secondo ciclo culminato in un secondo posto monstre con 87 punti a sole 4 lunghezze dalla Juve campione d’Italia, Totti subisce in maniera forte le scelte del tecnico che spesso lo lascia in panchina, regalandogli solo qualche scampolo di partita. È probabilmente la fase più interessante di tutto il film, che meriterebbe un approfondimento a parte. Da un lato un tecnico che guarda agli interessi della squadra, infischiandosene anche in maniera a tratti spocchiosa della storia del suo calciatore più famoso, dall’altro la bandiera che reclama maggiore considerazione senza forse accettare i limiti del tempo che passa.
La sensazione è che sicuramente questo valzer d’addio potesse essere gestito meglio, da parte di tutti i protagonisti. Spalletti – che in questa sua seconda avventura giallorossa è un tecnico più esperto – è lecito supporre escluda spesso Totti per ragioni soprattutto atletiche, e per dimostrare che comanda l’interesse collettivo (forse anche in virtù di qualche imbeccata societaria e per difendere la sua autorevolezza in spogliatoio). Scelte e momenti però sono spesso accompagnati da una comunicazione che denota un astio quasi fastidioso, quando per esempio ribatte piccato ai giornalisti che lo incalzano a ogni gol di Totti, come per negare l’evidenza che anche a quarantanni, magari senza sempre giocare dall’inizio, Totti potesse risultare ancora decisivo. È come se volesse vendicarsi di qualcosa, forse – come ha sottolineato qualcuno – la classe di Totti aveva reso talmente magnifici i vorticosi meccanismi offensivi della prima Roma di Spalletti, da offuscare i meriti del tecnico che in questa seconda occasione voleva quindi dimostrare di fare a meno di lui.
Totti d’altro canto non va a mendicare minuti di gioco, ma richiede considerazione in modi poco consoni all’atteggiamento di un Capitano, come testimonia il famoso sfogo rilasciato in un’intervista al TG1, in seguito a cui Spalletti lo esclude dalle convocazioni.
E come in ogni diatriba che si rispetti, più Spalletti cerca di demolire Totti, più Totti alimenta il suo mito, spaccando città e tifoseria, con la fazione più vicina al Capitano che fischia Spalletti malgrado i risultati ottimi della propria squadra.
Emblematica, nel rapporto fra i due, la partita con il Torino, in cui Totti entra a cinque dal termine con la squadra sotto 2-1 e segna una doppietta incredibile in pochi minuti.
Quanto questa situazione ha pesato sul clima dello spogliatoio? Quanto una gestione più armoniosa avrebbe beneficiato sulle sorti della Roma? Quanto un allenatore deve scendere a compromessi nella gestione di un fuoriclasse? Quanto può essere complicato porre determinate richieste ad alti livelli, navigando fra polemiche quotidiane? Quanto possiamo comprendere le scelte di Spalletti, che da allenatore ha il compito di condurre la squadra al miglior risultato possibile?
Ma allo stesso tempo, quanto era necessario ad esempio quel video in cui Spalletti diventa schiavo del suo stesso personaggio e nel video di auguri a Totti gli regala simbolicamente una macchina del tempo e il disco “Piccolo uomo” a Ilary che lo aveva apostrofato con quelle stesse parole? Non sarebbe stato più sensato sotterrare almeno pubblicamente l’ascia di guerra e dare una carezza a chi in fondo aveva consacrato l’intera esistenza alla maglia del club? Zeman o Mazzone come si sarebbero comportati? Totti era davvero così ingombrante nei confronti di tutta la squadra e della sua espressione sul campo?
IL ROMANISMO
Per “Romanismo” non si intende in questo caso una tendenza pittorica o dottrina particolare, bensì quella condizione esistenziale che pervade il tifoso della Roma, che lega a doppio filo le vicende della squadra e dei propri beniamini a quelle individuali e di tutta la città. Il filo invisibile che scuote e percuote l’animo di fede giallorossa. Di questo mood, di questa altalena di umori, degli eccessi ne ho sempre sentito parlare, senza però mai assistere da vicino a ciò che si intende. Nel film di Infascelli alcune scene raccontano bene questa dimensione.
In primis, è discretamente rappresentativo il rapporto dei tifosi con Giannini. Il Principe è stato il numero Dieci e il Capitano prima di Totti. La sconfitta in un derby con la Lazio per 1-0, con lo stesso Giannini che sbaglia un rigore procurato proprio dal giovanissimo Totti, degenera in una protesta infiammata il giorno dopo a Trigoria. Giannini viene assalito mentre in macchina esce dal centro sportivo, un tifoso addirittura lo strattona dal finestrino dell’auto. Lui resta fra l’impietrito e lo sconvolto. Poco prima, si sente Totti raccontare di come fosse usuale all’epoca avere molti tifosi, soprattutto prima dei derby, ad assistere agli allenamenti. Fa intendere come la pressione fosse grande e come facilmente in caso di sconfitta potesse degenerare, ma da tifoso in primis – da giovane assisteva alle partite dalla Curva Sud – dice “però era più bello”, con la nostalgia del tifoso per il calcio di quegli anni, meno filtrato nei confronti dei supporter.
Una seconda scena, ancora più forte, è la surreale barbarie che si scatena nella sera dell’addio al calcio di Giannini. 17 maggio 2000, all’Olimpico va in scena “Il saluto del Principe”. Giannini si congeda dal calcio giocato con una amichevole fra un Best Of dei suoi compagni romanisti e la Nazionale di Italia ’90. Dovrebbe essere una festa per un grande calciatore, se non fosse che tre giorni prima la Lazio ha vinto il suo secondo Scudetto della storia dopo una incredibile rimonta ai danni della Juve. Rammarico e delusione dei tifosi giallorossi per questa onta vengono sfogati in campo, con vandalismi che sfregiano l’intera serata che avrebbe dovuto celebrare Giannini, bandiera fedele per 15 anni ai colori della Roma.
All’intervallo, circa 3.000 persone si riversano in campo. È il delirio.
Cori contro il presidente Sensi, zolle asportate, porte distrutte. Come se dopo la vittoria dei cugini, fosse tutto finito e nulla avesse più senso. Entra la polizia, Giannini saluta sconsolato in lacrime e da spettatore mi chiedo: «Che senso ha tutto questo?» Si tratta di una brutalità commessa nei confronti di un uomo che ha dato tutto per la squadra. Un evento che rappresenta il sistema valoriale provinciale, l’ambiguità irrisolta su cui si regge il rapporto fra tifosi e squadra, dove non c’è la capacità di scindere i destini, in cui l’odio per il campanile a fianco prevale sulla possibilità di donare il giusto tributo a un eroe di casa.
La debordanza, l’esondazione di questo assurdo momento, fa il pari con l’assurda invasione che investe sempre l’Olimpico, esattamente quasi un anno dopo. La Roma di Capello conduce per 3-1 contro il Parma. Mancano 5 minuti al termine dell’ultima partita di campionato e i giallorossi sono pronti a festeggiare il terzo Scudetto della storia del club. È in questo momento che circa un migliaio di tifosi, non si sa come, invade il campo e inizia a spogliare i giocatori di ogni indumento. Capello, infuriato, si unisce allo sforzo delle forze dell’ordine e dello speaker per cercare di riportare la calma e fare in modo che la partita possa terminare poiché altrimenti la squadra rischierebbe la sconfitta a tavolino. Tredici minuti dopo si riprende, la partita finisce e il Giubileo giallorosso può cominciare. Totti racconta di aver impiegato “circa un’ora per rientrare in spogliatoio dal triplice fischio dell’arbitro”.
Questo amore sregolato, patologico, immane è presente anche nelle sue connotazioni maggiormente calorose, dolci e colorate. L’abbraccio di una famiglia verace e spontanea, spesso invadente per non dire invasiva.
È la folla che si accalca fuori dal recinto della chiesa il giorno del matrimonio di Totti per urlare “Bacio, bacio” come si fa agli sposalizi degli amici e che a Totti – tentato dalla possibilità di trasferirsi al Real Madrid dei Galacticos – fa pensare “Ma ndò vado via da Roma”.
È il gruppo di tifosi che saluta il Capitano mentre da casa inizia percorrere il tragitto che lo porterà all’Olimpico per la sua ultima partita, e lo baciano e lo abbracciano, venerandolo come un’icona.
È quel detenuto – ma questo non si vede nel film – che chiede il prolungamento di una settimana della sua pena, di fatto rimandando la propria scarcerazione, perché è programmata una visita di Totti in carcere e la possibilità di conoscere e incontrare il suo idolo vale più della libertà.
Quella libertà che lo stesso Totti fatica a poter ritrovare dopo gli anni dell’infanzia, prigioniero della sua stessa leggenda, monumento in vita consacrato alla sua stessa città, vate mistico sui muri di Roma, impossibilitato a godersi un singolo momento da persona comune.
QUEL CHE MANCA
Manca innanzitutto un focus dedicato ai momenti irrazionali e furibondi di Totti, solo accennati nel film. Dal calcione a Balotelli allo sputo a Poulsen, gli attimi d’ira e di sclero del Capitano vengono solo citati rapidamente, riducendoli a mera impulsività. Sarebbe stato bello perlustrare maggiormente la consapevolezza di Totti a riguardo, come li rivede ad anni di distanza, sentire magari cosa in campo fosse realmente successo per spingerlo a tali reazioni.
Manca sicuramente il racconto, o almeno l’accenno, delle stagioni con i mister Luis Enrique, lo Zeman bis e Rudi Garcia, con i vari, difficili, momenti di traghettamento fra Ranieri e Montella.
Manca un approfondimento sulla Nazionale. Molto bello assistere da vicino ai turbamenti, ai dubbi, alle fatiche e alla resurrezione di Totti dopo il terribile infortunio che a febbraio 2006 rischiò di non fargli giocare il Mondiale in Germania, però probabilmente agli appassionati sarebbe piaciuto sentire cosa ne pensava della sua esclusione da Francia ’98, da quale stanza della fantasia avesse tirato fuori il cucchiaio a Van der Sar ad Euro 2000, cosa mancava alla Nazionale del Trap in Giappone e Corea nel 2002.
Manca qualche incursione nel rapporto con De Rossi, per molti anni Capitan Futuro, romano e romanista come lui, che come lo stesso Totti ha terminato la sua carriera in maniera contestata. Rimane l’incertezza su come sia proseguito il loro rapporto, soprattutto in relazione alla famosa frase con cui Totti – già dirigente – ha salutato De Rossi, il giorno del suo addio alla maglia giallorossa, e che ancora oggi lascia qualche interrogativo: «Io non volevo.»
Non mancano invece i racconti più intimi e famigliari di Totti, dal rapporto con Ilary agli amici di sempre. Sono scene che ci restituiscono la semplicità, l’umiltà e la freschezza di Totti, ragazzo che dal quartiere si è trovato a diventare Campione del Mondo con la maglia numero 10 e la fascia al braccio della squadra del cuore, che è la stessa della sua città.
Totti manca a me e penso a tutte le domeniche degli appassionati del calcio italiano. Ci mancano i suoi tiri al volo, i cucchiai, i pallonetti, il radar che aveva nella testa e la sua capacità spalle alla porta di vedere il gioco, mettere in porta il compagno di prima anticipando tempi e spazi, cambiando campo senza nemmeno guardare con estrema precisione da una parte all’altra del terreno di gioco. Abbiamo avuto – e ce ne rendiamo conto forse solo oggi – il piacere e il privilegio di poter assistere alla carriera di questo immenso fuoriclasse.
Le scene finali rubano il cuore e commuovono davvero, quando Totti seduto da solo sulle scale del tunnel dell’Olimpico che portano al campo e Baglioni in sottofondo, mentre attende il momento di uscire per celebrare il suo addio e salutare la sua gente. La sua gente piangerà, un fiume di lacrime interminabile mentre il suo eroe dirà che stavolta è davvero finita per sempre.
Mentre aspetta di essere chiamato sul campo, Totti ha lo sguardo fisso nel vuoto e sbuffa per ricacciare indietro le lacrime, ripensando a tutto quello che quella maglia ha rappresentato per lui. Quella maglia con cui pochi minuti prima aveva toccato il suo ultimo pallone, nel suo stadio, vicino alla bandierina del calcio d’angolo, il posto in cui ci si rifugia di solito per far passare il tempo, mentre questa volta il tempo Francesco Totti lo avrebbe voluto semplicemente fermare…
“Mi chiamo Francesco Totti” mi è piaciuto molto e alla fine mi ha lasciato con più dubbi e domande, che risposte.
Non solo su questioni squisitamente calcistiche come il già citato rapporto con Spalletti e con i suoi allenatori, o su punti che abbiamo visto rimangono volutamente in sospeso.
La domanda più grande che lascia, credo, mentre osserviamo Totti ripassare con la mente tutta la sua carriera mentre attenda che cali per sempre il sipario su di essa, è quanto abbia inciso la scelta di rimanere a Roma a vita, quanto ciò abbia influito nella sua esistenza personale e nella sua parabola di calciatore. Quanto tutto questo si sia intersecato in modo inestricabile.
Sarebbe così un mito, se fosse andato a vincere trofei con il Real Madrid? Siamo sicuri che avrebbe poi vinto molti trofei oppure una crisi lo avrebbe investito fuori dal suo habitat naturale, impedendogli di diventare ciò che per noi oggi è Francesco Totti? L’amore di Totti per la Roma ha prevalso sulla sua capacità di mettersi in gioco e rincorrere ambizioni superiori, oppure restare a Roma e riuscire a vincere uno Scudetto, due Supercoppe, due Coppe Italia, diventando campione del Mondo, è stata un’impresa ancora maggiore proprio perché riuscita con un club sporadico protagonista nella storia del calcio italiano?
Sarebbe servita una serie forse, con uno sviluppo maggiore, per entrare volutamente fra le pieghe di una carriera unica nel suo genere.
Ma il film di Infascelli è volutamente esistenzialista, altrettanto unico nel panorama della cinematografia sportiva italiana.
Per chi, come me, è nato nei primi anni Ottanta, Totti è stato un fuoriclasse assoluto che ha accompagnato l’intera giovinezza e che ha incarnato, meglio di chiunque altro probabilmente, quella fase di passaggio dal calcio delle bandiere dal sapore più autentico e per certi versi provinciale dei primi anni Novanta, a quello ultragobalizzato e mainstream odierno, la cui transizione è arrivata dopo un irripetibile ciclo praticamente ventennale in cui le squadre italiane hanno raccolto lustri e trofei nell’intero continente, quando la stessa classe media poteva togliersi il lusso di competere ai massimi livelli in Europa.
E sentire la sua voce, ripercorrere con lui ciò che ha rappresentato la maglia della Roma, l’emozione nel descrivere quanto avesse desiderato vivere esattamente proprio ciò che gli è accaduto, è il punto di forza di un film che ci racconta da vicino perché sia stato così amato non solo dal popolo romanista, ma da tutti quei ragazzi che sognavano un giorno di vincere un campionato e vivere un’intera vita nell’idillio d’amore permanente proprio di quel piccolo mondo antico in cui tutto è ancora possibile, senza bisogno di uscire dal posto che si è sempre conosciuti perché in fondo c’era già tutto lì.
Pochissimi ci riescono. Francesco Totti è uno di quegli eroi che sono riusciti a prolungare la propria infanzia. Per questo ci commuove questo film, perché la sofferenza di Totti e la fatica nel chiudere la carriera, è lo stesso patimento del bambino innamorato del pallone che risiede ancora in ognuno di noi appassionati, che non vuol saperne di tornare del campetto e storce il naso quando inizia a fare buio ed è il momento di tornare a casa.