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Il Mio Angolo Personale

Perché un giovane fatica anche in seconda categoria

18 Giugno 2022

Uno degli argomenti sempre d’attualità nel corso degli ultimi anni nel mondo del calcio, è quello relativo allo scarso utilizzo dei giovani nel nostro campionato; a testimonianza di ciò basta una veloce ricerca su Ideacalcio per trovare diversi articoli che direttamente o indirettamente fanno riferimento alla medesima questione (“Ma è davvero solo una questione fisica?”, gennaio 2019).

Molto di recente (maggio 2022) hanno fatto scalpore le dichiarazioni di Walter Sabatini che, interrogato sull’argomento, ha dichiarato:

“Ci fossero giovani e anche bravi, giocherebbero. Se l’Udinese mette in campo 8-9 stranieri non è perché trascura i giovani, ma perché gli stranieri hanno più qualità. Smettiamola con questi slogan”.

Dichiarazioni quasi in antitesi con quanto dichiarato negli stessi giorni dal C.T. Roberto Mancini: 

“Abbiamo visto 52 ragazzi e alcuni erano giocatori che non conoscevamo. Alcuni sono molto bravi, come è possibile che non giochino in una squadra di Serie A? Per noi può essere molto utile”.

Il report mensile del CIES testimonia che il problema effettivamente esiste. 

Scritto in passato di alcune possibili cause (cultura molto legata ai risultati, questione fisica, formazione del giovane, ore d’attività praticata, ecc.), vorrei oggi provarne a dare una lettura anche differente, figlia di un confronto con un amico durato tutta la stagione e che mi ha portato ad alcune riflessioni.

Dopo molti anni nel settore giovanile l’amico Max ha scelto di tentare l’avventura coi grandi, finendo per accasarsi in una seconda categoria. Un campionato ottimo, concluso al terzo posto con un girone di ritorno che ha sfiorato l’en plein di punti, grazie ad una squadra piena zeppa di giovani che sono cresciuti durante la stagione.

Per svariati motivi conosco diversi di quei ragazzi, cresciuti tra settori giovanili con categorie regionali, regionali élite e in alcuni casi persino nazionali. 

La domanda che spesso ponevo a Max era “Ma *** fa la differenza nel tuo campionato, vero? No. Beh allora la fa ***, vero? No.”

A quel punto ho cominciato a pensare come fosse possibile che un ragazzo di 20-22 anni, cresciuto in campionati giovanili di un certo spessore, faticasse persino in una seconda categoria. 

Dal confronto con Max ne è emerso che giocare coi grandi è molto diverso persino dalla Juniores (non si dice la stessa cosa del campionato Primavera con la serie A?). I “volponi” di turno (i 30enni con 10 anni di esperienza in categoria) li trovi in ogni partita, e a volte il giovane non è preparato ad affrontare la pressione degli adulti. 

⚠️ A Max ho voluto quindi lanciare una provocazione (che è la stessa che lancio qui): “E se fosse colpa nostra, di chi allena nel settore giovanile?”  

Da anni sentiamo dire che l’allenatore di settore giovanile deve assumere un comportamento eticamente corretto (e ci mancherebbe), sostenendo sempre il ragazzo. Non urlargli contro. Non rimproverarlo in malo modo. Mantieni la calma. Evita scene plateali. Se sei in piedi davanti alla panchina e il ragazzo in campo sbaglia, non girarti dando le spalle al campo, incoraggialo. Sostienilo sempre, anche nell’errore. A me una volta è stato persino detto: “avevi le braccia conserte mentre eri in piedi, non va bene”.

Tutto giusto, se non fosse che mi sorge un tremendo dubbio…

“Ma siamo sicuri che una volta giunto tra gli adulti vi sarà la stessa comprensione, la stessa pazienza e calma di fronte ad episodi di scarsa attenzione che possono costare la panchina”?

⚠️ Prima di proseguire voglio sottolineare che lo scopo di questo articolo è volutamente provocatorio.

Avendo bazzicato per qualche stagione tra le categorie dilettanti di adulti, ricordo bene le bestemmie che volavano dalla panchina, le urla, i rimproveri dei vecchi verso i giovani. E allora mi chiedo: non è che – forse – li stiamo coccolando un po’ troppo questi giovani? Non è che forse viviamo in un eccessivo perbenismo? 

Se dovessi descrivermi mi definirei un allenatore bastone-carota (ho un approccio tuttavia differente se mi relaziono con l’agonistica o con l’attività di base; coi secondi è fin troppo sbilanciato sulla carota), che sa alternare il bravo (“l’hai fatto bene”) al rimprovero (senza mai sconfinare nell’offesa, naturalmente). E’ mia idea che il ragazzo vada preparato a ciò che inevitabilmente, prima o poi, troverà sul suo percorso, qualora abbia la passione di proseguire a giocare fino all’età adulta.

Probabilmente, ma è solo una mia teoria, 25-30 anni fa non vi era tutta questa attenzione verso gli aspetti pedagogici e ricordo infatti bene diverse strigliate da quasi tutti gli allenatori che ho avuto. L’impressione che ho oggi è quella invece di trovarmi di fronte ad una sorta di teatro, in cui far credere al ragazzo che tutti lo coccoleranno sempre e in ogni situazione della vita. 

Julio Velasco dice: “Il non avere anticorpi alla frustrazione, perché io non ho mai sbagliato, io non commetto mai errori (la colpa è sempre di un altro), nel momento in cui l’allenatore mi chiede cose che non riesco a fare, cosa succede? Insicurezza, paura di sbagliare. Ciò viene da bambini, ai quali viene data sempre ragione, invece di dirgli oggi bene, oggi male, non succede nulla. Non è che sei una schifezza, hai solamente sbagliato.

Perché succede che non gli si dica che ha sbagliato perché ci potrebbe rimanere molto male. Ma va bene che si senta male. Quello che non va bene è che si senta troppo male, che pensi di non valere solo perché ha fatto un errore“. 

L’intento di questo articolo era proprio questo: riflettere non tanto sulla necessità di denigrare il ragazzo (follia) ma di fargli vivere anche il giusto senso di frustrazione; fondamentale per superare le difficoltà della vita (e qui non parliamo solamente di calcio).

L’impressione che ho è quella che si stia andando in molti casi verso la direzione opposta, crescendo una generazione che di fronte alle prime difficoltà si troverà quasi spiazzata dalla novità. E sapete cosa accadrà? In molti molleranno, si fermeranno davanti all’ostacolo.

Ok quindi le infrastrutture fatiscenti del nostro paese (in Brasile stanno meglio? Eppure mi sembra che di giocatori ne escano in continuazione).

Ok la mancanza di cultura, troppo legata al risultato e alla mancanza di coraggio verso il cambiamento?

Ok mille altre cause…ma non è che sia anche colpa nostra, con questa continua ricerca della pacca sulla spalla e della favola: “il mondo è un incanto”?

Perché, caro ragazzo, ogni tanto là fuori è anche una m***a! 

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