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Teoria coaching mentale ed emotivo

La comunicazione e le emozioni raccontate dagli adolescenti – Episodio 2

22 Luglio 2021

La comunicazione e le emozioni raccontate dagli adolescenti

Nell’articolo di oggi il secondo episodio di una serie di racconti e storie narrate dagli adolescenti di un istituto superiore. Come docente di scienze motorie e sportive, in una scuola di secondo grado, durante la didattica a distanza ho voluto affrontare con gli studenti alcuni argomenti a me molto cari, quali comunicazione, emozioni e resilienza.

L’intento era quello di riuscire a comprendere come avrebbero reagito su tematiche “delicate” e, quanti di loro, almeno per iscritto, avrebbero avuto la voglia e il coraggio di farsi conoscere. Non vi nego, infatti, che alcuni alunni hanno rifiutato l’invito a raccontare episodi del proprio passato che, per loro stessa ammissione, avrebbero finito per far riaffiorare ricordi troppo dolorosi. Per questo motivo ho deciso di non forzare la mano, lasciando la libertà di accettare o meno l’invito e di descrivere ciò di cui avessero maggiormente voglia di raccontare.

In questo secondo episodio leggeremo i pensieri di Sofia, Enrico, Lorenzo, Enrico e Mariangela che in qualche modo si accomunano per ciò che han voluto raccontare.

Il racconto di Anna (nome inventato)

Ho provato molte emozioni durante la mia adolescenza. Ci sono stati periodi in cui ero molto felice perché ricevevo diverse soddisfazioni in ambito scolastico e nella parte sociale della mia vita. Ho iniziato ad avere più senso di responsabilità e ad affrontare i problemi che prima magari ritenevo impossibili. Queste cose mi hanno aiutato a mettere la testa in ordine, facendomi capire quali siano le mie vere priorità.

Nonostante gli aspetti positivi che mi hanno aiutato a diventare la persona che sono ora, la parte che mi ha reso effettivamente cosciente delle mie capacità e di chi sono io è la parte più difficile delle emozioni.

Ho passato un lungo periodo in cui ero perennemente triste poiché non capivo come tutte le persone attorno a me fossero migliori di me. Mi chiedevo chi fossi e che senso avesse la mia vita. A 18 anni tuttavia non ho ancora capito cosa fare al di fuori della scuola. Ho affrontato molti problemi che principalmente mi ero creata da sola, poiché non vedevo nemmeno una minima parte positiva in tutto quello che mi succedeva e ciò mi portava ad essere una persona negativa in tutto. Ero entrata in un circolo vizioso in cui ogni mia azione mi si poteva ritorcere contro.

Non sono una persona a cui piace far vedere quando sta male. Solitamente sono sempre io la persona del gruppo che aiuta gli altri, ascoltando e dando loro i migliori consigli che posso dare. Piano piano ho però capito che non posso essere perennemente la persona che si dedica agli altri e che anche io ho bisogno di qualcuno che mi aiuti con i miei problemi, ascoltandomi e dandomi consigli. Così ho iniziato a parlarne di più con le mie amiche, rafforzando ancora più il rapporto di amicizia.

Fortunatamente al mio fianco ho sempre avuto persone vere, che mi hanno sostenuto in quello che ho fatto, permettendomi di aumentare gradualmente la mia autostima; che prima era del tutto inesistente.

Oggi non posso dire che nella mia vita non ci sia un po’ di tristezza ma almeno ho imparato ad affrontarla e a capire meglio il perché mi sento così.

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Il racconto di Francesco (nome inventato)

Saper comunicare è molto importante, sia nella nostra vita sociale che in quella privata.

Un episodio che mi ha particolarmente toccato e che tutt’ora continua a causarmi problemi, confusioni, domande su domande, penso sia iniziato agli inizi della scuola superiore.

Alle medie praticavo il calcio nel ruolo di difensore. Arrivato in terza media ero consapevole che sarebbe stato il mio ultimo anno di calcio perché poi sarebbero cominciate le superiori e un maggior impegno scolastico. Nonostante le migliori intenzioni ad affrontare quell’ultima stagione col massimo dell’impegno, l’arrivo del nuovo allenatore portò me e altri 5 miei compagni ad abbandonare anzi tempo.

Sembrava che il mister facesse le preferenze. Aveva un tono aggressivo nei nostri confronti, come se dovesse vincere i campionati mondiali (anche se so bene che lo faceva per spronarci a fare del nostro meglio, nei Giovanissimi questo sport dovrebbe essere visto per divertirsi e imparare con calma). Urlarci contro qualche offesa non era proprio il modo migliore. Le prime volte sembrava anche divertente e lo accettavamo, ma dopo mesi e mesi diventò pesante, portandoci a perdere la voglia di giocare e verso l’abbandono.

Mi dedicai ad uscire maggiormente con gli amici e a conoscere nuove persone. Le mie amicizie diventavano sempre più forti e cominciai a non farne più a meno. Avevo il pensiero fisso sul fatto che dovessi uscire, parlare con qualcuno, socializzare e divertirmi.

Poi arrivò la prima superiore e un iniziale difficoltà ad integrarmi con i miei compagni. I miei amici cominciai a non vederli più tutti i giorni a causa della lontananza della mia scuola che mi toglieva molte ore sia in termini di viaggio che di studio.

Cominciai a sentirmi male senza rapporti sociali e comunicazioni col mondo esterno. A scuola tuttavia andava molto bene sia con i voti che nel rapporto coi miei compagni.

Arrivò poi la seconda superiore dove cominciai in maniera a dir poco splendida: ritornai magro e in forma grazie a dieta e allenamenti, fui l’unico della classe a riportare tutti i compiti delle vacanze in maniera corretta; andavo benissimo coi voti e riuscivo ad incontrare i miei amici durante la settimana.

Purtroppo tutto calò a picco dopo un mese, quando ricevetti la notizia che il mio cane sarebbe morto a breve. Era la mia migliore amica e solo il pensiero che l’avrei dovuta lasciare mi torturava dentro. Cominciai a smettere di pensare alla scuola e mi preparai mentalmente a ciò che sarebbe accaduto di lì a poco.

Staccai la testa da tutto e da tutti. Non uscivo di casa e mi rinchiudevo a guardare il telefono per paura. Arrivò il momento che dovetti dirle addio. Mi buttai giù di morale ancora di più. A scuola non andavo più bene e mio padre non faceva altro che arrabbiarsi con me. Come se non bastasse arrivarono pure il COVID-19 e la didattica a distanza, con la forte tentazione di dormire durante le ore di lezione. 

Nonostante il vano aiuto dei miei amici, con l’arrivò dell’estate avevo tuttavia voglia di cambiare. Nonostante girassi col sorriso in faccia avevo sempre una ferita dentro che fa ancor ‘oggi piuttosto male.

La terza superiore la iniziai col sorriso, sentendomi abbastanza bene e cambiato. Tutto però sparì al mio primo voto negativo. Mio padre tornò ad arrabbiarsi con me ma in modo decisamente peggiore, urlandomi contro per futili motivi.

Poi iniziò il 2021, con altri problematiche e casini vari. Tuttavia resisto e spero che un giorno tutto ciò possa finire bene, risolto e passato.

Il racconto di Mattia (nome inventato)

Al di là delle parole, il nostro corpo comunica emozioni e sentimenti in moltissimi altri modi attraverso il nostro corpo. A volte il linguaggio del nostro corpo può essere usato consapevolmente – come quando si gesticola o si fa l’occhiolino – mentre molte altre volte il corpo parla involontariamente per noi, inviando messaggi senza che noi ce ne accorgiamo. Questi messaggi influenzano il giudizio degli altri, portando alla luce verità sui nostri pensieri e sentimenti, che magari preferiremmo restassero nascosti.

Personalmente sento molto la paura che si scoprano verità che non vorrei trasmettere quando mi trovo con altre persone, soprattutto se esse non sono miei amici o persone con cui di solito mi rapporto facilmente. Mi è capitato più di una volta, per esempio, di dover comunicare qualcosa a qualcuno e preferire di evitare il contatto diretto, utilizzando piuttosto uno strumento che medi la comunicazione; come richiedere l’intervento di un’altra persona con cui mi sento più sicuro, che comunichi quella cosa al posto mio, o l’invio di un messaggio o un’e-mail. Questi strumenti di mediazione permettono di effettuare una comunicazione senza l’entrata in gioco di altri fattori, come la timidezza. Tuttavia non sarebbe l’ideale utilizzare uno strumento mediatore, perché il messaggio comunicato, mancando alcuni indizi trasmessi dal corpo – come il tono di voce – potrebbe essere frainteso.

Ho avuto la possibilità di rendermi conto di come in certi casi, anche semplicemente la vicinanza di una persona, può stimolare una sensazione di disagio e imbarazzo o, in altri casi, di sicurezza e benessere.  Personalmente, quando parlo con qualcuno, non tengo mai una distanza troppo ridotta, ma nemmeno troppo elevata: mi risulta infatti più facile comunicare con una persona singola piuttosto che con un gruppo, e trovo molta difficoltà a parlare con un tono di voce elevato in modo che mi riesca a sentire una persona che si trova lontana da me. Forse quest’ultima difficoltà è legata al fatto che mi sento a disagio se qualcun altro, estraneo alla conversazione, sente quello che sto dicendo.

Personalmente utilizzo molto i gesti delle mani quando parlo, un po’ volontariamente, per rafforzare e illustrare meglio ciò che voglio dire, in altri involontariamente, ripetendo gesti e azioni che hanno lo scopo principale di superare lo stato di disagio e timidezza in cui mi trovo.

Lo sguardo è invece uno dei miei punti deboli: tendo a essere molto a disagio quando qualcuno mi guarda mentre parlo, mentre, al contrario, quando sono interessato ad un discorso tendo a guardare in faccia la persona che sta parlando.

Il racconto di Gabriele (nome inventato)

Non ho mai fatto troppo caso agli atteggiamenti degli altri, né alla maniera in cui mi rapportavo con loro. Da piccolo mi importava davvero poco di quello che gli altri potessero pensare di me e lo stesso facevo con loro. Col tempo la cosa si è capovolta, fino ad aver paura dell’opinione altrui.

Proprio per questo, pur d’avere un indizio su ciò che gli altri possano pensare di me, ho iniziato a notare gesti, sguardi e attitudini che prima non mi sforzavo di vedere.

La cosa più chiara e che mi aiuta più facilmente ad entrare nell’altra persona sono gli occhi. Grazie al contatto visivo mi sembra d’avere un legame maggiore con le persone. Proprio per questo motivo ho spesso paura di guardare negli occhi qualcuno, poiché temo possa anch’esso guardare dentro di me e capire o intuire cose che non vorrei venissero viste.

Anche il modo in cui qualcuno mi parla o lo fa con qualcun altro sono ottimi strumenti per conoscere quella persona.

Ricordo di come, mentre ero alle elementari, volessi sempre parlare di ciò che interessava a me, senza interessarmi di quanto potesse importar al mio interlocutore quello che dicevo; e lo facevo con tutti, sia a casa che a scuola. Proprio i miei compagni erano quelli che meno mi sopportavano (e avevano ragione), perché volevo essere sempre al centro dell’attenzione quando se ne presentava l’occasione, anche mettendomi in ridicolo.

Non mi importava di ciò che potessero pensare, né mi interessavo ai modi in cui venivo trattato per colpa mia; ingenuamente incolpavo loro delle conseguenze delle mie azioni.

Tutt’ora temo di sbagliare ancora, non curandomi dei risultati delle mie azioni sugli altri e delle conseguenze che possono avere.

Il racconto di Alessia (nome inventato)

In tutta la mia vita non mi è mai capitato di scrivere su carta ciò che ho passato alle medie; forse perché al solo pensiero mi ritornavano in mente brutti ricordi che vorrei solo dimenticare. Oggi però, con più maturità e consapevolezza delle cose che mi circondano, posso dire che quell’esperienza negativa mi ha rafforzato e mi ha reso me stessa.

Mi rendo conto infatti che quella ragazzina dal volto abbassato, dagli occhi lucidi e seduta da sola in un banco, non ero io ma una me travestita di insulti, derisioni e paure.

Non so dire con precisione cosa scatenò il bullismo dei miei compagni nei miei confronti, perché
ancora non l’ho capito. Un giorno a scuola iniziarono le prese in giro, le battute e gli scherzi che mi facevano credere di essere capitata nel mondo e nel momento sbagliato; anche se oggi le persone che mi stanno vicino mi convincono di tutt’altro.

Quando ci ripenso sento un profondo disagio che non ho ancora del tutto superato e del quale non so ancora convincermi che in tutto ciò io non ero la colpa.

I professori, le compagne e i compagni erano indifferenti; non capivano che alle loro battute non c’era una risata in me ma solo un pianto che tenevo dentro per paura – ancora una volta – di essere
giudicata. Tornare a casa era una liberazione poiché ero finalmente il un luogo sicuro dove potevo ridere anche io e non solo gli altri.

Questo periodo per me è stato molto duro. Desideravo stare sotto le coperte e non uscire mai, nemmeno per andare a pallavolo, dove la situazione non era molto diversa. Le mie compagne di squadra si divertivano infatti nel fare commenti sulle mie imperfezioni o gli errori che facevo in partita, portandomi a pensare che la mia assenza avrebbe fatto solamente del bene alla squadra.

Crescendo ho preso delle decisioni, come la conoscenza di persone completamente diverse da me
ma che mi fanno sentire a casa e sempre adatta. Anche cambiare squadra – una decisione molto difficile – mi ha reso più forte e sicura di me sia in campo che con le stesse compagne.

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