Si fa presto a dire: Emozioni
Preambolo
L’articolo fa il paio con quello scritto nel giugno 2020: “Le emozioni non ti mentiranno mai“.
L’idea di questo articolo è quella di raccontare un’esperienza accaduta nel corso di questa settimana e di conservarla come un piccolo tesoro all’interno della mia rubrica personale (“Il mio angolo”), mantenendola in questo modo viva nei miei ricordi.
Prima di arrivare al nocciolo della questione, mi occorre un po’ del vostro tempo per raccontarvi il contesto in cui si inseriscono i fatti, così da poter avere un quadro più chiaro della situazione.
Ma facciamo addirittura un altro passo indietro.
Puntuali come le bollette di luce e gas, tra gli addetti del gioco del calcio appaiono di tanto in tanto parole sulla bocca di tutti; già, come una moda (anche se odio dirlo). E’ stato il tempo del Funino, della Periodizzazione Tattica, delle esercitazioni integrate, del metodo SFERA e del TIPS, del Coerver Coaching e via discorrendo. In questi mesi è il turno di complessità ed emozioni.
Se da un lato è senz’altro positivo il tentativo di aggiornarci e di approcciarci sempre più verso una visione olistica del metodo, dall’altro rimango un po’ perplesso quando nella sostanza – nei fatti – non si dice nulla di concreto, offrendo più dubbi che spunti operativi.
Le emozioni sono il segnale che vi è stato un cambiamento, nello stato del mondo interno o esterno, soggettivamente percepito come saliente. Le altre componenti che costituiscono le emozioni sono: la valutazione cognitiva(o appraisal) da parte dell’individuo di un determinato antecedente emotigeno, l’attivazione fisiologica (o arousal) dell’organismo(ad esempio, variazioni nella frequenza cardiaca e e respiratoria, sudorazione, pallore, rossore, etc.), le espressioni verbali(e ad esempio il lessico emotivo) e non verbali(espressioni facciali, postura, gesti, etc.), la tendenza all’azione e infine il comportamento vero e proprio, generalmente finalizzato a mantenere o modificare il rapporto transazionale in corso tra individuo e ambiente.
Per saperne di più: https://www.stateofmind.it/tag/emozioni/
Se si parla oggi di emozioni in ambito calcistico è perché diversi studi hanno ormai dimostrato il loro ruolo fondamentale nei processi di apprendimento, in quanto esse possono attivare, potenziare, inibire o mandare in cortocircuito i processi cognitivi.
L’episodio che voglio raccontarvi si svolge con la categoria u15, ragazzi coi quali ho già lavorato nel corso della passata stagione. “Sì ok, so quello che magari qualcuno sta già pensando. Di due stagioni alla fin fine non ne viene fuori nemmeno una intera, grazie al COVID”.
Stiamo parlando di ragazzi che, come se non bastassero i mille scombussolamenti dovuti all’adolescenza, si son ritrovati a convivere con un lockdown nazionale, la didattica a distanza, il distanziamento e in alcuni casi anche la perdita di persone care.
Giocando a carte scoperte, dalla mia ho un piccolo vantaggio, penso di poter sostenere che: “conosco la categoria”. Nel corso delle ultime otto stagioni questa è la settima volta che alleno questa fascia d’età. Se mi guardo indietro mi rendo conto dei tanti errori commessi in passato – non è retorica ma una convinzione – e dei passi in avanti fatti in primis su me stesso.
Con l’annata 2006 ho infatti cercato di essere comprensivo come mai lo sono stato prima. Ho dialogato singolarmente con ciascuno di loro per quanto riguarda impegno e considerazioni tecnico-tattiche. Ho cercato di essere me stesso, ironico al punto giusto per stemperare momenti di difficoltà o per rallegrare l’ambiente. Ciò nonostante, un pensiero spesso mi assilla: come mi ricorderanno tra 4-5 anni? Che ricordi avranno di mister Diego?
Di diverse esperienze come allenatore mi sono portato via e conservo in primis i rapporti umani, amicizie vere che durano a distanza di anni. Per questo mi preoccupa che il mio ruolo possa essere visto solo come un “ruolo di passaggio”, una persona che smetteranno di sentire quando cresceranno.
Fin da quando ho ereditato questa squadra ho avuto la sensazione di un gruppo di ragazzi un po’ apatico, che reagisse poco o nulla agli stimoli emotivi. Me ne sono accorto soprattutto nei momenti preparatori alla partita, quando, come mi accadeva in passato, ho provato a parlare loro di valori fondamentali nella vita e nello sport. Se ad esempio i ragazzi dell’annata del 2000 (ormai sei anni fa) sembravano per la maggior parte rapiti e coinvolti da ciò che provavo a trasmettergli, i 2006 mi han dato spesso l’impressione di avere gli occhi spenti e abbassati.
Riuscire a diventare Squadra (con la S maiuscola) è un processo estremamente complesso, che merita non solo tante attenzioni da parte dell’allenatore, ma anche un po’ di Culo (anche questo con la C maiuscola). Questa mia idea sta diventando negli anni sempre più una certezza. Il tempo a nostra disposizione non è poi molto se paragonato a quello che gli adolescenti trascorrano a casa o a scuola, con le varie contaminazioni (positive o negative) che ne derivano. Una convinzione che sto maturando è che serva un po’ di “fortuna” (per non usare la stessa parola usata prima, ma il senso è quello) nel riuscire a ritrovarsi e ad amalgamare tutti gli ingredienti della ricetta perfetta: gli umili, gli introversi, gli estroversi, quelli di personalità, i buffi, i più deboli, ecc.
Nel momento in cui in una torta si eccede con un ingrediente o ne manca uno, nonostante i continui tentativi dello chef, questa potrà anche risultare buona ma non avrà mai quel gusto eccezionale della torta perfetta.
Ma veniamo ai fatti.
Il giorno di Natale, sul gruppo WhatsApp della squadra, vedendo che alle ore 15 nessuno aveva ancora scritto nulla, ho fatto gli auguri ai ragazzi. Puntuali questi hanno via via risposto. Il primo dell’anno ho quindi voluto metterli alla prova non scrivendo nulla, per vedere quanti si sarebbero ricordati del mister. Se sono qui a scrivere questo articolo è perché l’esito già l’avete intuito: zero.
L’accaduto mi ha parecchio turbato e ferito, tanto da ripromettermi di affrontarlo alla ripresa degli allenamenti (un mese dopo l’ultimo allenamento del 2020). E così ho fatto.
Ho investito 10 minuti di tempo a parlare dei miei sentimenti, di come mi sono sentito e di cosa stessi provando. Il tutto però facendo due premesse. La prima: “Nell’ultimo mese, nel vostro gruppo (so che hanno un gruppo privato in cui non è presente l’allenatore – normale – in tutte le squadre che ho allenato è stato così), quante volte vi siete sentiti?” Risposta che immaginavo: “Solo per farci gli auguri. A natale e il primo dell’anno”. La seconda: “Mi chiedo dove ho sbagliato con voi. Sarebbe infatti troppo facile venir qui e dirvi che siete stati scorretti e poco rispettosi. La colpa è senz’altro mia, ma sto cercando di capire cosa e dove ho sbagliato“.
Ho volutamente – ma perché ne sono convinto – ammesso in primis le mie colpe. Siamo educatori e, nonostante il poco tempo e due stagioni disgraziate, interrotte in diversi momenti, ho sempre la speranza di essere ricordato come quell’allenatore che gli ha lasciato qualcosa di buono da custodire per sempre.
La vera doccia fredda è arrivata però solo nei minuti successivi ed è il vero motivo che mi ha spinto a mettere nero su bianco quest’esperienza. Dopo aver concluso il mio monologo, nel quale mi ripeto, ho parlato col cuore, ho chiesto loro se qualcuno avesse avuto il piacere di dire la propria e di prendere la parola. Risultato? Silenzio assoluto, nello stupore mio e del dirigente presente.
Ho quindi invitato un ragazzo ad esprimere il proprio pensiero a riguardo, ma non solo non è riuscito a spiaccicare nemmeno una parola, ma nemmeno alla successiva domanda: “stai pensando a qualcosa o non ti passa nemmeno nulla per la testa?”, è riuscito a rispondere. Il secondo a cui ho chiesto di intervenire non ha avuto esito migliore, tant’é che l’unica parola pronunciata è stata un “cioè” all’incirca 10 volte in 20 secondi, passando poi la parola perché a suo dire non trovava il modo per esprimersi. Il terzo, 15 anni compiuti da pochi giorni, ha sostenuto esattamente ciò che prevedevo: “Hai ragione”, la classica risposta che si da a mamma, papà, all’insegnante o alla fidanzata per farli contenti. Di fronte alla successiva richiesta di esprimersi in maniera più completa e profonda, non ha saputo dire nulla di più.
Poi finalmente un piccolo spiraglio. Un quarto ragazzo chiamato in causa interviene per dire: “abbiamo dimostrato immaturità“. Ah, che bella parola. Forse ci siamo. Ho quindi proseguito la mia tesi sostenendo che l’immaturità non è stata a mio avviso nel non ricordarsi nemmeno per 10 secondi del proprio allenatore, ma nel non riuscire ad esprimere nulla di nulla davanti ad una persona che parla delle sue emozioni e sentimenti.
Se è vero che è impossibile non comunicare – anche il silenzio è una forma di comunicazione – avrei preferito che qualcuno intervenisse offendendomi e chiedendomi di iniziare l’allenamento; l’avrei francamente gradito maggiormente. Quel silenzio totale e generalizzato ammetto che mi ha fatto molto male. Il viaggio di ritorno in macchina mi ha portato a pensare e ripensare al perché nessuno dei ragazzi fosse riuscito a prendere la parola e a cercare un confronto con una mamma di uno di loro, di professione psicologa esperta in ambito adolescenziale. Chi meglio di lei avrebbe potuto capire il mio stato d’animo. Le considerazioni che ne sono emerse hanno purtroppo trovato diverse analogie con ciò cui stavo pensando.
Parlando con un ragazzo dell’accaduto, questi sosteneva la tesi che debba essere il mister a fare gli auguri, in quanto esiste una scala sociale per cui dev’essere lui a dover fare il primo passo. In seguito alla domanda: “che significa scala sociale”, è uscito il tema della professionalità. “Ognuno ha il proprio ruolo, non c’è amicizia e non è neanche indispensabile che ci sia. Se c’è amicizia c’è meno professionalità”.
“Da psicologa percepisco che l’amicizia è qualcosa che i ragazzi vorrebbero ma che in realtà non hanno mai, non almeno come vorrebbero. Il nostro ruolo è poi particolare. Insegnanti, psicologi, mister sono considerate persone lontane, che possono insegnare e basta. Non ci vedono come persone con le quali confrontarci. La questione è che non dicono cosa pensano e partono dall’idea, errata, che devono solo ascoltare”. Quando faccio i colloqui, la prima difficoltà che incontro è proprio quella di farli parlare. Di solito sostengo una tesi opposta alla loro, qualsiasi cosa dicono. Lo faccio a carte scoperte, nel senso che gli dico che non sarò mai d’accordo con loro e che sosterrò sempre una tesi alternativa. Se tutto va bene si instaura una sorta di gioco per cui chi convince l’altro, del proprio punto di vista, vince per così dire. Questo è un modo per insegnare ai ragazzi a parlare e quindi a pensare mentre stanno parlando; cosa che non sono abituati a fare. il più delle volte hanno a che fare con adulti che dicono “sì dici bene” o “no hai sbagliato”.
[..] In modo diverso, questo atteggiamento lo noto anche in altri adolescenti, che se ne escono con frasi del tipo: “a che serve dire la mia opinione, tanto non cambia niente”.
La maggior parte degli adolescenti (si fa presto a parlare di emozioni coi bambini e con gli adulti, ma gli adolescenti sono un altro paio di maniche) ragiona proprio in questo modo: la mia opinione non conta nulla.
Anche se una piccolissima goccia nel mare è stata raccolta col messaggio (la sera stessa) di un ragazzo che si scusava per la mancanza di rispetto avuta (gli ho poi spiegato che non l’ho visto come un gesto irrispettoso, bensì più come una dimenticanza che può ferire o come una mancanza di riconoscenza per ciò che gli è stato dato nei mesi precedenti), ho pensato per un giorno intero a cosa avrei potuto dire o fare all’allenamento successivo. Prima dell’inizio ho quindi invitato ad un colloquio individuale il secondo ragazzo, quello del “cioè” ripetuto all’infinito. Manifestandogli la mia delusione di fronte ad una maturità che invece gli riconosco, è riuscito ad esprimermi tranquillamente i suoi pensieri. Ha esordito facendo riferimento ad una forma di timidezza (in realtà è insicurezza) che l’ha bloccato nell’esprimere i propri pensieri in pubblico; questo è uno dei quei punti sui quali dovremmo soffermarci e riflettere. Ho provato a stemperare la situazione, ricordandogli che non si trovava di fronte a 18 “belle ragazze” ma a compagni e coetanei coi quali si condivide la doccia e diversi problemi dell’adolescenza. Il colloquio è proseguito con altre sue personali considerazioni che mi hanno confermato le buone impressioni che nutro in lui, invitandolo ad osare e a prendere la parola in pubblico quando ricapiterà un altro episodio simile.
Successivamente ho voluto testare il polso dell’intera squadra, chiamando tutti a raccolta ed esordendo con: “Sono due giorni che ci sto pensando. A cosa secondo voi?” Se qualcuno è intervenuto facendo riferimento: “al fatto che non ti abbiamo fatto gli auguri”, qualcuno ha immediatamente capito che mi riferivo all’incapacità di dire la propria, al silenzio che è regnato per diversi minuti.
Gli ho ricordato che l’intento delle tante domande che gli pongo, fin da quando ci siamo conosciuti, non è quello di metterli alla prova, bensì di conoscere il loro punto di vista, sottolineandogli di come non mi sia mai permesso di giudicare un loro qualsiasi intervento, proprio perché conosco i timori che hanno ad esprimersi e di come un mio giudizio negativo potrebbe essere l’epilogo conclusivo di qualsiasi altro tentativo di intervenire.
Secondo la psicologa, “l’adolescenza dovrebbe essere quel periodo in cui un ragazzo dovrebbe mettere tutto in discussione, dovrebbe aver voglia di cambiare il mondo, dovrebbe sentire di possedere la verità e di considerare gli adulti come coloro che non capiscono niente della vita. Come dici tu, fino a qualche anno fa l’adolescenza era così. Io e alcuni colleghi ci chiediamo perché gli studenti non scioperino o per la DAD, per le restrizioni, ecc. Per una questione di età e sensazione di onnipotenza, relativa all’età, dovrebbero fare un 68, nel senso letterale del termine. Potrebbero, con la tecnologia di oggi, organizzarsi a livello nazionale per scioperare, occupare le scuole. E invece sono fermi. Alcuni mi hanno detto che è segno di maturità da parte dei ragazzi quello di osservare le regole. Io non concordo con questo, è segno semmai di passività, d’arrendevolezza. Come si è arrivati a ciò? Secondo me perché le ultime generazioni vivono poche frustrazioni e troppi dolori. Frustrazione nel senso che non sanno aspettare, o fanno qualcosa per avere subito un ritorno, oppure niente. Dolori invece perché subiscono troppo. In sintesi la fase adolescenziale è saltata, per così dire. Come possiamo aiutarli? Alcune volte funziona fare la dura. Provocare fino all’estremo. In altri funziona l’esatto opposto: far regnare il silenzio. Occorre capire cosa sta pensando il ragazzo che abbiamo di fronte, per fargli capire che deve contestarci, che anche se si sente giudicato, deve non arrendersi. Quello che si semina nell’adolescenza si vedrà fra qualche anno, così come il risultato dell’adolescenza è ciò che è stato seminato nei primi 10 anni di vita, più o meno.
Passività e arrendevolezza. Una buona fetta dei “nuovi adolescenti” effettivamente sembra lasci trasparire questo, ma facciamocene una ragione: è colpa nostra. A chi spetta il compito di educarli? La scuola, lo sport, la famiglia. Sarebbe troppo facile oggi scaricare le responsabilità, sostenere che è colpa della “società”, facendo riferimento ad una sorta di società segreta di cui nessuno conosce l’ubicazione.
Se a qualcuno potrà sembrare strano, coi bambini (u10 e u11 le altre categorie che ho seguito nell’ultimo biennio) è quasi più facile instaurare un dialogo. Bene o male rispondono e, nella loro innocenza, a volte se ne escono con frasi o pensieri che nascondono gioia o anche sofferenza in alcuni casi (chi vive situazioni poco serene a casa è riuscito ad esprimerlo senza che io nemmeno glielo chiedessi).
Oggi, parlare con gli adolescenti, è davvero difficile. Non cadiamo nell’equivoco di pensare che per instaurare un dialogo siano sufficienti le tradizionali frasi da spogliatoio, la battuta sulla morosetta o sulla prestazione della domenica. Questo genere di conversazioni sono solo la punta dell’iceberg, una sorta di intro per cercare di instaurare una forma di confidenza. Il parlare a cui mi sto riferendo io è tutt’altro: è il riuscire a parlare liberamente e apertamente di emozioni e sentimenti, non vergognandosene. Il problema però, parrebbe essere ad un livello addirittura superiore: per parlarne, devo saperle riconoscere.
Perché a distanza di due giorni alcuni ragazzi sono riusciti ad esprimere pensieri che fino a 48 ore prima non riuscivano ad esprimere? L’idea che mi sono fatto è che abbiano bisogno di tempo. Tempo per rielaborare. Tempo per spendere anche solamente pochi minuti per pensare su quanto gli è stato detto. Gli viene in sostanza chiesto di conversare ad un livello più profondo “del più e del meno”, di sperimentare una novità che ha bisogno di tempo perché diventi un’abitudine.
Perché è così importante comunicare me l’ha ricordato la psicologa: ” un gruppo (classe, squadra, amici) non è mai la somma delle singole persone. Dal gruppo nascono idee, sentimenti, voglia di vincere che non sono presenti nelle singole persone che compongono il gruppo. Il gruppo non c’è, secondo me, quando la quasi totalità dei ragazzi non è in grado di conversare, nel senso di contrattare, convincere o persuadere.
Un adolescente inizia a sviluppare quello che in psicologia viene definito il pensiero ipotetico deduttivo; un ragazzo dovrebbe essere in grado di conversare, ossia parlare per ipotesi, con i se e i ma. In pratica è l’età dove le domande bisogna porsele e non solo rispondere. Il problema è che questo modo di pensare è nuovo per gli adolescenti (che poi è il pensiero degli adulti) e non hanno una palestra dove esercitarsi. Una volta questa palestra era la famiglia. Le litigate fra figli e genitori, soprattutto con i papà, era un modo per aiutarli a far sviluppare questo pensiero. Attualmente la responsabilità, anche se non sarebbe giusto, di fatto è passata al mister, all’insegnante e all’educatore”.
Siamo ormai giunti al termine di questo racconto, che spero ci arricchisca e ci faccia riflettere sul nostro ruolo di educatori (genitori, allenatori, insegnanti). Come ho scritto nell’introduzione di questo pezzo, questa rubrica è uno spazio personale, una sorta di diario in cui narrare esperienze di vita di tutti i giorni, al fine di rileggerle e condividerle con chi ha il piacere di leggerle.
Oggi si parla – come detto in precedenza – tanto di emozioni, con riferimento a ciò che accade all’interno del rettangolo verde. Il tempo a nostra disposizione è poco, lo so, ma ho tuttavia l’impressione che ci stiamo perdendo (come in tanti altri momenti) un qualcosa di autentico e vero.
Ho la netta sensazione, ma spero di sbagliarmi, che tra qualche mese si finirà per rimettere nel cassetto pure le emozioni, in favore di qualche neologismo coniato al momento opportuno.
Non dimentichiamo che le piccole emozioni sono i grandi capitani della nostra vita e che obbediamo a loro senza saperlo.
(Vincent Van Gogh)
Foto: https://wall.alphacoders.com
Commenti
Caro Diego, come sempre ho letto con molto interesse e profondità il tuo articolo.
Immagino come tu ti possa sentire, anche quando non hai dei feedback di ritorno sul gruppo IdeaCalcio….
Io a scuola e a calcio mi imbestialisco tale e quale a te….
Io sono sincero: mi trovo a disagio nel fare il mio mestiere di insegnante a scuola. Lascio stare una, due, tre volte, però dentro mi sembra di impazzire!!!Ti capisco benissimo. Non si hanno riscontri da parte dei ragazzi!!!
Con i miei alunni/e ho intrapreso questa strada che è la più spontanea (l’essere sè stessi): cerco di arrivare a loro cercando dii mettermi sullo stesso piano: raccontandogli le esperienze e le bravate che mi capitava di commettere alla loro età, anche ricordando episodi divertenti, con un parlare alle volte anche poco professionale!!!!
Provo a capire e a partire dai loro interessi, dal cellulare, da Instagram per esempio o Tik Tok: appena capto un messaggio da parte loro, o di qualche ragazzo che dice: “Oh hai visto la storia della tipa X…è proprio figa!!!!”….E’ li che bisogna agire!!!!E’ li che bisogna lanciare la canna da pesca. DEVI SAPER CONDURRE PER ATTRARRE (dire la parola giusta per portarli da te!)
Il consiglio in generale che ti dò e che tu predichi da quando esiste IdeaCalcio è: METTI IL GIOCO AL CENTRO DI TUTTO!!!!Anche nella comunicazione!!!Lascia stare l’analitico (le paranoie, perchè mi rispondi così, perchè nessuno scrive, eccetera).
CON GLI ADOLESCENTI HO DECISO DI AGIRE COSI’…Non lo so se vincerò questa battaglia…però è il mio dovere provarci, da padre di famiglia, da insegnante e da allenatore.
Ciao Luca, grazie del tuo feedback e dei tuoi suggerimenti.