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Il principio del contrasto

1 Marzo 2022

Una nobile manipolazione del contesto di gioco

Il buio è totale, provo a dare il cinque a N per motivarlo a recuperare lo svantaggio. Ma non ci riesco. Anche a mezzo metro di distanza non ci vediamo minimante. Gli arriva la palla. La controlla, piatto, coscia, e poi la manda dall’altra parte facendo punto. Su un campo da Teqball, al buio completo. Quello che N sta facendo è sviluppare alla massima potenza la propria prestazione, giocando come se riuscisse a vedere l’invisibile. Quello che noi stiamo utilizzando è un caposaldo della nostra metodologia. Si tratta del principio del contrasto, qui portato a livelli estremi.

Il principio del contrasto in psicologia è un’arma di persuasione lodevole e dall’elevata efficacia. È un principio della percezione umana che risalta la differenza esistente tra due cose presentate in successione; se queste sono intrinsecamente diverse, averne esperienza l’una dopo l’altra le farà sembrare ancora più diverse.

In una classe gli alunni vengono divisi in due gruppi e messi davanti a tre vaschette d’acqua. La prima gelida, la centrale tiepida, la terza molto calda. Il primo gruppo immerge un braccio nell’acqua fredda, il secondo in quella calda. Poi contemporaneamente in quella tiepida: la sensazione provata è completamente differente, il principio del contrasto è in atto.

La nostra ricerca ed esperienza come allenatori di calcio ci ha portati alla certezza che questa percezione illusoria non abbia implicazioni solo nella dimensione psicologica, ma anche in quella motoria.

Sapere manipolare il contesto delle esercitazioni risaltando questo principio ci permette di creare un notevole miglioramento delle performance nei giocatori. Si tratta di generare una difficoltà intensa in modo che tornando al contesto reale di gioco questo sembri più facile. Il giocatore va più forte e la prestazione migliora. Se creiamo sul campo un ostacolo anormale, una straordinarietà, nel momento in cui lo eliminiamo generiamo nel calciatore una specie di super-compensazione.

La super-compensazione è quello stato fisico di eccezionale rendimento generato in conclusione al processo di adattamento del nostro corpo a uno stress di alta intensità. All’aumentare dello stimolo allenante rispondiamo fisiologicamente durante un periodo di recupero più o meno lungo, proporzionalmente alla durata della fatica, riportando l’organismo ad un equilibrio dinamico attraverso una reazione uguale e contraria che andrà a migliorare così il livello prestativo originale. Il principio del contrasto è qualcosa di simile.

Diversamente dalla super-compensazione non ha a che fare con un riassetto chimico e fisico dell’organismo, ma il risultato è pressoché lo stesso.

Uno stato di grazia conseguente a una difficoltà inusuale. Il segreto della sua riuscita sta nella nostra capacità di manipolare il contesto dell’allenamento. Un contesto che, nel contesto dell’allenamento collettivo, deve sempre e indiscutibilmente rimanere fedele alle implicazioni date dal funzionamento del sistema specchio. Questo significa che la difficoltà che si inserisce non deve andare ad annullare gli elementi che creano il contesto in cui lo scopo dell’attività (simulante la partita) deve realizzarsi.

Una coesistenza delicata, quella tra il meccanismo mirror e il contrasto, che se non padroneggiata correttamente rischia di rendere inefficace l’allenamento.

La nostra esperienza ci ha mostrato in modo limpido il risultato che ne può derivare. L’abbiamo studiato ed esercitato fino ad estremizzarlo.

Dietro all’attività del Teqball al buio non si nasconde solamente una voglia di sperimentare, fare qualcosa che nessuno avesse mai fatto, ma anche e soprattutto la consapevolezza dell’utilità che questa potesse portare. Seppur il Teqball sia considerato spesso uno strumento unicamente divertente, come un classico gioco da spiaggia, se ben utilizzato è in realtà capace di allenare accuratamente la componente tecnica e posturale del giocatore. Dentro il Teqball sono altamente potenziabili la visione periferica, il colpo di testa nella sua fisionomia completa, il controllo palla e la lettura delle traiettorie, fondamentale per acquisire la capacità di anticipo dell’avversario e di intercetto delle seconde palle. Infine, il tiro al volo e la postura durante la ricezione; quest’ultima s’identifica nell’attendere la palla sulle punte dei piedi, con i talloni alti e in leggero movimento. In questo modo il giocatore oltre che a rinforzare caviglie e polpacci, utile per la prevenzione degli infortuni, è più reattivo e rapido nell’azione. E tutto questo in un contesto divertente e competitivo. Quando poi le luci vengono spente e l’attività viene svolta al buio, l’arma diventa letale.

Ma cosa succede per davvero durante un allenamento al buio totale?

Tempo fa, nel 1991, qualcosa di simile lo fece Phil Jackson, verosimilmente il più grande allenatore della storia dell’NBA, un leader carismatico e molto originale. Fece fare ai suoi Chicago Bulls un allenamento interamente al buio, cosa non proprio semplicissima quando si deve ricevere un passaggio-missile da Michael Jordan. L’obiettivo era quello di dare una scossa alla squadra in un momento di demotivazione collettiva. Voleva trasmettere ai giocatori l’importanza di sentire ciò che non si sente, di vedere l’invisibile, di andare oltre ai fenomeni per come si presentano e scoprire l’essenza profonda delle cose, senza limitarsi a dare valore a ciò che in realtà è superficiale.

Nel calcio l’udito è un senso molto spesso di poco conto, riservato agli specialisti più sopraffini. Al buio diventa invece il senso più importante: si inizia a sentire ciò che normalmente non interessa, il rumore della palla a contatto con il campo, con il corpo, nostro e degli avversari. L’udito può indicare dove si trova la palla e se il colpo è di qualità. Il nostro corpo si sviluppa e progredisce in direzioni inedite e finora inesplorate.

La nostra partita è terminata con i giocatori in uno stato di super-sensitività che segnavano punti come se la luce fosse accesa. Il principio del contrasto qui non si può sbagliare. Se i giocatori riescono a giocare bene al buio, quanto può diventare facile giocare quando si accendono le luci?

In questo metodo di coaching non esiste un modo predefinito di inserire la difficoltà all’interno degli allenamenti. Sono infiniti gli esempi che si possono fare. Tra i più impattanti vi è l’allenarsi a un’intensità e con una pressione maggiore rispetto a quella della partita, in modo che senza queste sembri più facile giocare. Oppure quello di un’altra esercitazione che svolgiamo durante i nostri allenamenti. Durante il riscaldamento della catena muscolare posteriore e dei legamenti delle caviglie e delle ginocchia finalizzato alla riduzione del rischio d’infortunio durante le successive sollecitazioni imposte dall’attività, alleniamo i giocatori attraverso il gioco della brasiliana: palleggiare insieme al proprio compagno senza fare cadere la palla e con un piede sopra un bosu abbastanza instabile. Richiesta ostica, molto.

I giocatori iniziano con qualche difficoltà e con poco successo nella performance, nonostante il loro processo d’apprendimento sia ben attivo. Poi iniziano ad utilizzare solo il piede debole. La sorpresa, che in realtà è molto ricercata e molto poco sorprendente, è che tornando ad usare il piede forte la performance risente di un netto miglioramento rispetto a prima. Migliorano con il piede forte in cinque minuti di allenamento del piede debole.

Giocare sembra più facile, chiaramente. Ed ecco che il contrasto si attiva, e di conseguenza i suoi straordinari effetti mentali e motori. È sorprendente comprendere come un effetto della percezione mentale porti a un miglioramento netto della performance. Così come lo è il fatto che allenando il piede debole si stia migliorando contemporaneamente anche il piede forte.

Le difficoltà che si presentano durante un allenamento non possono che essere fruttuose per la crescita individuale e collettiva della squadra; generatrici allo stesso tempo di un aumento della performance nel breve termine grazie al contrasto creato dalla loro eliminazione, e di un apprendimento a lungo termine raggiungibile con l’impegno nel superamento di queste difficoltà.

Se è vero, infatti, che di fronte a una ricerca del solo contrasto percettivo ciò che maturerà sarà la performance, è altrettanto vero che il grado di apprendimento che ne deriva dipende strettamente dalla natura della difficoltà stessa. Si pensi ad esempio ai vincoli che vengono inseriti all’interno delle esercitazioni. Queste alterazioni contestuali, come la modifica di una regola, dell’obiettivo, del dimensionamento o dell’orientamento spaziale, sono funzionali all’emergere di un comportamento ricercato.

Manipolazioni di fronte a cui la squadra deve per necessità, così come per le necessità dettate dalla legge della sopravvivenza un organismo, adattarsi ai cambiamenti ambientali, auto-organizzarsi per adattarsi al contesto variato rispetto alla realtà del gioco; comunque in linea con i limiti dettati dal binomio contrasto-contesto mirror. Si attiva pertanto un processo di apprendimento del comportamento che si vuole allenare a partire da una difficoltà insolita – in questo caso un vincolo dell’esercitazione – che una volta eliminato permetterà al giocatore di percepire un contesto libero da condizionamenti, semplificato, al netto però anche del comportamento appreso.

Questo è il principio del contrasto. Una manipolazione del contesto di gioco che se curata nei minimi dettagli crea una simbiosi tra aumento della performance nell’immediato e acquisizione di un solido apprendimento, generatore invece di un costante miglioramento della prestazione nel lungo termine. Una manipolazione che permette di percepire l’impercettibile. E di sentire ciò che non si sente.

Articolo scritto con la collaborazione di Gaspare Baiata, fondatore dell’Accademy Baiata.

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