L’intervista: Giammarco Scapin
Con l’articolo di oggi prende il via una nuova rubrica, “L’Intervista”, dedicata al racconto di storie che credo meritino di essere raccontate per diversi motivi. La prima intervista non potevo che rivolgerla a Giammarco Scapin, data di nascita 28/01/1999.
Ho avuto il piacere di conoscere Giammarco durante la stagione 2012/2013, in veste di secondo allenatore con la categoria u14 del Calcio Padova. Quella squadra era un team davvero straordinario, con mister Paolo Birra in panchina (col quale abbiamo poi stretto una bella amicizia nel corso degli anni successivi) e una rosa di giocatori davvero forte, capace di aggiudicarsi quell’anno la vittoria del campionato e una serie di finali vinte a livello nazionale. Di quella squadra Giammarco ne era il capitano. Fisico possente (ricordo che a fine stagione la sua statura si aggirava sui 180cm), centrocampista moderno, capace di giocare in un centrocampo a due o come mezz’ala con la stessa naturalezza. Dotato di un sinistro insidiosissimo, ricordo che andava a segno con la regolarità di un centravanti; che calciasse da fermo o con palla in movimento, sembrava non facesse nessuna differenza. All’inizio della stagione successiva, dopo un lungo tira e molla, Scapin viene acquistato dalla Juventus e per me, che l’osservavo giocare, sembrava il giusto riconoscimento per un talento cristallino. Negli anni (anche grazie ai social network) ne ho seguito le orme, sicuro che prima o poi l’avrei visto calcare i palcoscenici più ambiti.
Ho deciso di raccontare la storia di Giammarco perché il suo seppur giovane percorso mi ricorda che spesso le cose non vanno esattamente come tutti si aspetterebbero…
D: Giammarco, raccontaci innanzitutto il tuo percorso sportivo
R: Ho iniziato a giocare a calcio all’età di 4-5 anni, nell’Airone, la squadra del mio paese, S. Giorgio delle Pertiche. A 8 anni, dopo alcuni provini, sono stato preso dal Calcio Padova, dove ho militato fino all’inizio della stagione coi Giovanissimi Nazionali. Prima dell’inizio del campionato sono stato acquistato dalla Juventus, dove ho disputato i campionati Giovanissimi e Allievi Nazionali, giocando anche sotto età. In quegli anni ho avuto anche l’onore di poter indossare la maglia della nazionale con le rappresentative U15, U16 e U17. L’annata successiva, dopo il ritiro con la Primavera della Juventus, ho chiesto di essere ceduto in prestito al Vicenza, poiché avevo intuito che essendo un sotto età sarebbe stato meglio trovare maggior spazio altrove; da qui il passaggio nella Primavera dei biancorossi dove, dopo una buona stagione, sono stato richiamato alla Juventus. Successivamente, in seguito all’interesse dell’Empoli, ho deciso di scendere in Primavera 2, togliendomi la soddisfazione della promozione in Primavera 1. Dopo Empoli, il passaggio tra gli adulti, dove ho disputato tre stagioni in serie D, con Campodarsego, Luparense e Adriese, dove milito ad oggi.
La scelta di approdare in serie D, seppur sia un ottimo campionato, è stata figlia di una serie di decisioni sbagliate che ho preso quando ero in Primavera, a cui aggiungo alcune figure che non hanno mantenuto le promesse fatte e, con senso autocritico, anche per alcune prestazioni non brillanti in cui ho dimostrato di non essere tuttavia all’altezza dei grandi palcoscenici.
Ciò nonostante sto affrontando questi anni in serie D con la voglia di migliorarmi sempre, sperando un giorno di poter essere pronto per il grande salto.
D: Nel tuo percorso di settore giovanile, quali sono gli allenatori che hanno maggiormente segnato la tua crescita e che ricordo hai di loro?
R: Un po’ tutti gli allenatori che ho avuto mi hanno lasciato qualcosa. In particolare ricordo mister Cosimo Chieffa che, nei Pulcini del Calcio Padova, ci fece capire l’importanza dei fondamentali tecnici. Un altro allenatore che mi ha lasciato molto è mister Poalo Birra che in quegli anni mi trasmise tanta fiducia. Il mio approdo alla Juventus fu sicuramente anche grazie a lui. Mister Pasquale Luiso, avuto nella Primavera del Vicenza, mi ha invece tirato fuori la grinta e la cattiveria che non sapevo di avere; grazie a lui ho capito che potevo essere un giocatore diverso da quello che io stesso conoscevo, sicuramente più completo. In serie D mister Andreucci, al mio primo anno tra i grandi, mi ha insegnato molto sia sul come stare in campo che sulla fase difensiva. Mister Centurioni, seppur nella sua breve esperienza, in poco tempo mi ha trasmesso invece la convinzione che posso impormi anche tra i grandi.
D: Come vive un ragazzo di 14 anni la lontananza da casa? Quali sono state le figure di riferimento che ti hanno aiutato?
R: Non è stato facile andare via di casa a 14 anni, soprattutto il primo anno. Ero abituato a vivere la quotidianità coi miei genitori, ad uscire con gli amici. Il primo anno è stato molto difficile e per nulla semplice. Man mano però, crescendo ci si abitua. Con le persone attorno a me, tutor e soprattutto compagni di squadra, ci siamo dati una mano, dandoci forza nei momenti difficili. Tornavo a casa ogni due mesi e gli amici li vedevo veramente poco. La mia famiglia invece mi è sempre stata vicino e appena potevano venivano a trovarmi e ciò mi ha dato una gran mano. Mi hanno sempre aiutato, consigliato e sostenuto, seppur a volte, magari sbagliando, ho voluto fare di testa mia.
D: Che effetto fa indossare la maglia della nazionale? Cosa ricordi di quei momenti?
R: Indossare la maglia della nazionale, soprattutto alla prima convocazione, penso sia stato uno dei momenti più belli che ho vissuto fino ad oggi. Mi sentivo come se dovessi difendere qualcosa di mio contro le altre nazionali. Ascoltare l’inno italiano, mentre sei abbracciato coi tuoi compagni, ti da una scarica di adrenalina davvero forte. Un’emozione indimenticabile.
D: Tra i giocatori che hai affrontato nel settore giovanile, chi ti aveva colpito maggiormente ed è poi effettivamente riuscito a ritagliarsi spazio tra i grandi?
R: Ho avuto la fortuna di giocare con compagni di squadra e avversari davvero forti, di cui parecchi sono adesso nelle massime categorie. Potrei citarne molti ma quelli che mi hanno impressionato maggiormente sono tre. Moise Keane, compagno di squadra per due anni e dotato già a 16 anni di una forza fisica e una velocità sopra la media. Era impressionante vederlo patire in campo aperto e superare in dribbling 2-3 avversari prima di calciare a rete. Un altro che mi ha impressionato con la maglia della nazionale è stato Justin Kluivert, dotato di una tecnica assurda. Infine, Gianluca Scamacca, impressionante nel vederlo abbinare una forza fisica fuori dalla norma a mezzi tecnici comunque importanti.
D: Com’è stato il tuo ambientamento da alcuni dei club più organizzati a livello giovanile italiano, al calcio dilettantistico, seppur in palcoscenici importanti come la serie D?
R: Quando un ragazzo ha la fortuna di giocare nei settori giovanili dei club più importanti di Italia, nel passaggio alla serie D gli sembra normale ricevere tante attenzioni dal punto di vista organizzativo. Diciamo che i ragazzi vengono un po’ viziati e coccolati nell’ambiente professionistico, seppur io non sia mai stato tra quelli che non vedevano l’ora di farsi massaggiare sul lettino. Il primo impatto in serie D o in qualche club di Lega Pro non particolarmente ricco, per qualche ragazzo è un po’ traumatico, tanto da chiedersi “dove sono capitato”. Io non mi sono mai lamentato e credo che nessun ragazzo dovrebbe farlo, considerando che anche a questi livelli si ha la fortuna di giocare facendolo come professione. Devi dimostrare di essere giocatore quando vai in campo, a prescindere che tu abbia tre fisioterapisti o meno.
D: Come mai secondo te in Italia i giovani faticano così tanto ad imporsi ai massimi livelli? Come mai un ragazzo, con un trascorso magari di anni e anni in un settore giovanile professionistico, fatica ad imporsi anche in Lega Pro?
R: In Italia si fa fatica a puntare sui giovani. Se un ragazzo merita di giocare è giusto che giochi, a prescindere dall’età e dalla categoria. In Italia i club hanno per lo più paura di lanciare un ragazzo del proprio settore giovanile anche se questo ha tutte le qualità e la personalità per giocare. In altre nazioni questa cosa è vista diversamente. Se un giocatore a 17 anni dimostra di meritare di giocare, lo buttano in campo senza timore. Poi è normale che a 20-21 anni siano più avanti di noi, con molte presenze già in prima squadra; magari, se venisse fatto anche in Italia, sempre per merito, sarebbe diverso. C’è proprio un percorso differente. Inglesi, tedeschi e francesi dimostrano maggior personalità perché i club gli danno maggior fiducia mentre in Italia si viene considerati maturi a 25 anni.
Se hai avuto la fortuna di rimanere per anni in un settore giovanile tra i migliori in Italia, non ti passa nemmeno per la testa che potresti prima o poi finire nei dilettanti e pensi che almeno una Lega Pro la farai di certo. La realtà è però diversa. Si susseguono decisioni, sfortuna e magari un ultimo anno di Primavera non giocato al massimo, che porta gli altri club a non interessarsi di te. Sarebbe bello pensare che dopo 10 anni in un settore giovanile professionistico tutti possano avere una possibilità tra i grandi, ma non è così. Ognuno ha il suo percorso.
D: A 22 anni da poco compiuti, ci credi ancora di poter giocare tra i professionisti o è un sogno che hai messo ormai nel cassetto?
R: Il mio sogno rimane quello di arrivare nella categoria più alta possibile. Io ora milito in serie D, che è una buona categoria, con giocatori forti, ma spero sia un punto di partenza. Lavoro per maturare il più possibile e arrivare magari già dalla prossima stagione nei professionisti. Il sogno deve rimanere quello, perché è ciò che ti sprona a migliorarti sempre di più.
D: Cosa pensi non abbia funzionato nel tuo passaggio dal settore giovanile alla prima squadra? Pensi sia andato storta qualcosa? Se tornassi indietro cambieresti qualche tua scelta?
R: Ho avuto la fortuna o la sfortuna di giocare sempre nei settori giovanili in cui sono stato; sempre titolare. La prima scelta sbagliata l’ho fatta in Primavera, quando ho deciso di andarmene dalla Juventus perché la società mi aveva fatto capire che non ero più un titolarissimo e avrei fatto qualche panchina. Per com’ero allora, non avevo la presunzione di pensare di essere più forte dei miei compagni ma ero tuttavia convinto di dover giocare. Da qui la scelta di andare a Vicenza e poi a Empoli. Oggi mi rendo conto che è stata una decisione sbagliata, una delle peggiori che potessi prendere. Ogni cosa è a suo tempo e ognuno ha il suo percorso. Qualche panchina in più mi avrebbe fatto bene per farmi crescere e maturare, per avere quella necessaria consapevolezza di volermi migliorare. Sbagliando, ho scelto di avere maggiori sicurezze e di voler giocare. Questa è stata indubbiamente la scelta peggiore. Magari sarebbe andata ugualmente allo stesso modo ma magari no. Questo però l’ho capito solamente dopo, quando sono arrivate le prime panchine tra i grandi. Questa cosa mi ha però spronato a migliorarmi e a portarmi a lavorare sodo in settimana per conquistarmi il posto.
D: Nonostante la tua giovane età, che consigli daresti ad un ragazzo di 12-13-14 anni, che ha già diverse aspettative e pressioni su di lui?
R: Il mio consiglio è quello di tenere lontane pressioni e aspettative, in quanto i ragazzi dovrebbero pensare solamente a divertirsi e a giocare a calcio. Essere liberi di testa. Ai giocatori più promettenti arrivano poi gli sponsor e la consapevolezza di ciò che potrebbe essere la loro vita. Bisogna tuttavia non illudersi perché questa è la prima cavolata che si può commettere. E’ sempre il campo a decidere se uno merita di giocare.
Non c’è da fidarsi poi di tutte le persone che ti ruotano attorno e molte volte è meglio colui che ti da il bastone piuttosto che la carota. Troppo facile dire che va sempre tutto bene, che sei il più forte di tutti. Il guaio è che così il ragazzo non migliora. Migliora se gli viene detto dove deve migliorare. Così può diventare un giocatore.
Ci sono alcune figure in questo mondo che possono spingere alcuni giocatori più di altri e questo non lo scopro di certo io. Il mondo del calcio è anche questo e non sempre arriva chi merita. Un consiglio che posso dare è di non mollare mai perché se molli diventa dura risalire. Anche se hai un ragazzo davanti a te, per qualsiasi motivo, il consiglio è di dimostrare sul campo il tuo valore.
Nel ringraziare Giammarco per la disponibilità a raccontare la sua storia, voglio chiudere questa prima intervista con alcune mie personali considerazioni.
La storia di Scapin è una di quelle che spesso porto come esempio per raccontare di quante cose possono cambiare così in fretta nel mondo del calcio. Alla mia prima esperienza nei professionisti, nella mia ingenuità, ero sicuro di vedere Giammarco sfondare di lì a qualche anno tra i grandi; troppa la superiorità che dimostrava nei confronti degli avversari a 14 anni. Le cose però, come lui stesso ci ha raccontato, non hanno sempre un lieto fine e, scelte sbagliate o il non avergli fatto capire che avrebbe dovuto lavorare sodo durante la settimana, gli sono valse ad oggi “solamente” la serie D.
Nel rispondere alle mie domande, nonostante la sua ancora giovane età, sono comunque rimasto colpito dalla sua maturità e dalla sua analisi lucida. Il passaggio che mi trova maggiormente concorde è quando dice che oggi, in serie D, sta lavorando con la voglia di migliorarsi sempre, cosa che, per sua stessa ammissione, Giammarco ha capito un po’ tardi, nel momento in cui tra i grandi ha cominciato a finire in panchina. Anche quando dice: “sono sempre stato un titolarissimo e qualche panchina in più mi avrebbe fatto bene per maturare”, è un aspetto che sostengo e porto avanti da anni. Non dovrebbe mai esistere la formazione titolare, decisa già al lunedì mattino a prescindere dall’impegno che i giocatori metteranno in settimana. Se un ragazzo non merita di partire dal primo minuto (per impegno o comportamento), anche se poi in partita ci fa vincere la partita, ricordiamoci che gli stiamo in qualche modo facendo del male. Continueremo a vincere, ma per il suo futuro, se ce ne sarà bisogno, dovrà prendere ogni tanto qualche mazzata.
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In questa intervista, si evince il danno tecnico ed emotivo che causiamo nei giovani attraverso selezioni troppo precoci, che illudono i protagonisti sul loro futuro e li abituano ad un percorso semplice che non riesce a preparare il giovane alle difficoltà che prima o poi arriveranno. Far sentire il ragazzo un predestinato, gia in età pre puberale non lo stimola al sacrificio e lovfa deprimere alle prime difficoltà. Il percorso delle selezioni aiuta la vittoria immediata ma non prepara alla vittoria futura. Complimenti all’intervistatore e all’intervistato per non aver mollato