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FootSofia

“FootSofia”: Sassi in uno stagno

11 Giugno 2020

“FootSofia”: Sassi in uno stagno – Allenare per ologrammi, di Tommy Dal Santo

“Ogni essere umano, come il punto di un ologramma, porta in sé il cosmo. Ogni essere, anche il più chiuso nella più banale delle vite, costituisce in se stesso un cosmo. Porta in sé le proprie molteplicità interiori, le proprie personalità virtuali, una infinità di personaggi chimerici, una poliesistenza nel reale e nell’Immaginario, nel sonno e nella veglia, nell’obbedienza e nella trasgressione, nell’ostentato e nel segreto; porta in sé brulichii larvali in caverne e in abissi insondabili. Ciascuno contiene in sé galassie di sogni e di  fantasmi, slanci inappagati di desideri e di amori, abissi di infelicità, immensità di glaciale indifferenza, conflagrazioni di astri in fiamme, irruzioni di odio, smarrimenti stupidi, lampi di lucidità, burrasche dementi”.

 

 

Diciamo spesso che i nostri allenamenti devono avvicinarsi il più possibile a quella che è la realtà del gioco. Eppure sovente le nostre esercitazioni lo frammentano, ricercando un solo e singolo aspetto/obiettivo, perdendo così, almeno in quella porzione di allenamento, la globalità di quello che avviene in un contesto più complesso come la gara. Inevitabile? È possibile un allenamento che, pur mantenendo il principio della specificità, non tralasci, in ogni singola esercitazione, di allenare alla globalità del gioco? In ogni singola esercitazione vuol dire: in ogni singola esercitazione ripercorrere l’intero ciclo del gioco. Non considerare, insomma, la seduta di allenamento come somma di diversi obiettivi/principi che trattano un solo aspetto o parte del gioco, ma come un prisma dove le diverse esercitazioni siano semplicemente diverse prospettive/sfaccettature che riconducono tutte alla complessità del gioco. Il tutto in ogni parte. Pensiamo ad un ologramma. Che cos’è? Partiamo da un’esperienza che tutti abbiamo fatto.

Se gettiamo un sasso in uno stagno si producono una serie di onde concentriche che si irradiano verso l’esterno. Se immediatamente ne lanciamo un secondo, avremo una complessa configurazione di creste, avvallamenti, collisioni: le onde allora si increspano le une sulle altre, formando uno schema di interferenza.

Ecco, nella creazione di ologrammi, immagini tridimensionali registrate su una pellicola fotografica, si sfrutta un principio simile; semplificando, un raggio laser viene diviso in due: il primo viene diretto verso un oggetto (una mela per esempio), il secondo viene fatto collidere con la luce riflessa dal primo (dopo che ha incontrato l’oggetto): lo schema di interferenza che risulta dai due raggi viene registrato su una pellicola. Ora, se la pellicola viene illuminata da un fascio di luce, riapparirà l’immagine della nostra mela, virtuale e tridimensionale.

La nostra mela ora, pur essendo intangibile (non posso addentarla e mangiarla), ci dà diverse informazioni: ci possiamo girare attorno osservandola da diverse prospettive e nei suoi dettagli ecc; è come se nella pellicola registrata fosse contenuta la totalità di prospettive e dettagli dell’oggetto a cui abbiamo puntato il laser. Ma soprattutto, a differenza di una fotografia che se viene spezzata o tagliata, perde la totalità della scena. Ogni porzione di pellicola olografica contiene tutta l’informazione dell’immagine che rappresenta: vuol dire che se frantumiamo la pellicola, in ogni frammento è possibile rivedere l’immagine della mela. E se tagliamo la lastra ancora una volta, ri-accade la stessa cosa: ogni singolo frammento di un ologramma contiene in se la totalità dell’informazione che rappresenta. Ogni singola parte contiene il tutto.

Rimanendo nella metafora dell’ologramma, immaginiamo ora il nostro allenamento come una immagine virtuale del gioco, della gara. Questa immagine non può essere bidimensionale, la proiezione del quadro o del “piano” programmatico del mister. Deve avere quella multi-dimensionalità che consente di osservare, o meglio sperimentare, il gioco nelle sue diverse prospettive e dettagli: è il nostro oggetto, ma stavolta tangibile, praticabile, sperimentabile, costituito dalle nostre diverse prospettive: quella degli allenatori e dei giocatori, quelle figure che creano l’ambiente di apprendimento. In ogni parte, con le nostre molteplicità interiori, con i nostri desideri e fantasmi, le galassie di sogni, gli smarrimenti e le lucidità di cui parla Morin, abbiamo la totalità del gioco in noi, ognuno dalla sua diversa prospettiva vissuta. Noi siamo in noi tutto il gioco e lo siamo tutti insieme. È un’immagine il gioco, ma un’immagine che vive di noi.

Ora, anche ogni frammentazione del gioco nella seduta di allenamento deve contenere dentro di se l’intero. Come nella pellicola olografica è contenuta la totalità della mela da ogni prospettiva, così anche nella predisposizione della seduta lo sguardo può essere particolare (un aspetto, un obbiettivo, un principio di gioco), ma lo scenario sullo sfondo dev’essere intero (il gioco come totalità). La figura cui poniamo il focus, l’attenzione, non deve essere separata dallo sfondo.

Vuol dire che l’obiettivo o il principio è solo un pretesto: esso deve essere “aperto” ad altro.  

Troppo spesso alleniamo un principio o un obiettivo, singolo e isolato in se stesso.  Da solo rimane un singolo sasso in uno stagno. Serve un’interferenza, un secondo sasso, un rumore, un altro laser per creare multi-dimensionalità, prospettiva, globalità. E adattamenti in chi apprende. Prendiamo banalmente una semplice combinazione di passaggi (supponiamo di attivazione) che vuole allenare un aspetto della fase di possesso (alcune sequenze di gioco che si riproducono in costruzione). Non fermiamoci lì, alla sola sequenza; apriamo l’esercitazione, uno sviluppo, un rumore, una fluttuazione o interferenza, ad altro. Per esempio simulando una perdita di palla nella sequenza, che determina un non possesso, una transizione negativa, una transizione positiva. Lo sguardo e il focus attentivo possono continuare ad essere particolari, ma l’apertura consente ai ragazzi di sperimentarsi nella totalità del gioco, nelle sue diverse fasi. Il tutto, la totalità delle fasi, in una singola parte dell’allenamento. E come nell’attivazione, così nelle altre esercitazioni: riprodurre, il più possibile, il tutto nella parte.

Per inciso questo modo di vedere può avere implicazioni anche nel modo di operare dello staff: non esercitazioni a lato una rispetto all’altra, ma la totalità in una esercitazione osservata da diversi punti con le diverse figure dello staff coinvolte (il portiere in azione di gioco, l’aspetto coordinativo motorio in azione di gioco, l’aspetto tecnico in azione di gioco, quello delle scelte, ecc…).

Insomma, la metafora dell’ologramma ci dice di provare a scoprire il tutto in ogni singola porzione del gioco, di tenere viva la totalità e di provare a rispecchiarla in ogni momento dell’allenamento. È un viaggio dentro le prospettive, un prisma che ruota e scopre sfaccettature diverse di un tutto, caleidoscopio di luci, colori, immagini, figure che si intersecano, si combinano, si formano e si dissolvono, offrendoci ogni volta in un singolo frammento, un brandello di infinito.

Commenti

1
  • Bruno Turella ha detto:

    La mia pratica sportiva è la mountain bike e negli ultimi tempi ho scoperto l’importanza e la validità degli “allenamenti a secco”. Gli esercizi di propriocezione esempio, aiutano molto nelle capacità di controllo e conduzione del mezzo. Allenamento “frammento” quindi, ma che a dire il vero (secondo me, almeno) fa già parte dell’insieme quando concepito per questo.
    P.S. Nel caso che porto io, l’insieme di frammenti sarà poi una gara o una “semplice” uscita in mountain bike.

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