“FootSofia”: Suarez – Oltrepassare la Linea
Scrive Borges: “Che un individuo voglia risvegliare in un altro individuo ricordi che non appartengono che a un terzo, è un paradosso evidente. Realizzare in tutta tranquillità questo paradosso, è l’innocente volontà di ogni biografia.”
L’umile tentativo di raccontare qualcosa di qualcuno che nemmeno si conosce, nasce dalla persuasione, forse assurda e paradossale, che le nostre storie pur sempre si intrecciano e hanno qualcosa da dire l’una all’altra.
Prismi, specchi, pozzi profondi, messaggi cifrati, oppure nulla. Ognuno in una storia vede ciò che vuole. O ciò che è destinato a vedere.
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In “Splendori e miserie del gioco del calcio“ il grande scrittore uruguaiano Eduardo Galeano scrive: “per fortuna appare ancora sui campi di gioco, sia pure molto di rado, qualche sfacciato con la faccia sporca che esce dallo spartito e commette lo sproposito di mettere a sedere tutta la squadra avversaria, l’arbitro e il pubblico delle tribune, per il puro piacere del corpo che si lancia verso l’avventura proibita della libertà.”
Un poeta sa vedere il calcio come arte, religione, ebbrezza. Come estrema contraddizione anche. Splendore e miseria, emozione viscerale e freddo business, fantasia al potere e inquadramento nei “poteri forti”. Un poeta sa varcare la linea del consueto, i confini comuni tracciati dagli uomini, per sporgersi oltre, in quell’avventura proibita della libertà dove attinge parole non-dette, disegna altri spazi aperti, coglie mondi a-venire. Un poeta incarna in se la contraddizione.
Luis Suarez è uno degli ultimi poeti sui campi di calcio. Poeta maledetto certo, ma giocatore decisivo, esempio da evitare e un talento da vendere, antipatico eppure letale. Geniale, come l’ultimo goal di tacco, un gesto ex-novo, mai visto, oppure folle, con i morsi rifilati agli avversari. Sempre sul crinale insomma, ballando costantemente tra il bene e il male come con la linea della difesa avversaria, tra gioco e fuori-gioco.
Non è un caso che la sua autobiografia si intitoli Crossing the line. Oltrepassare la linea, dove non si può, è qualcosa che ha sempre caratterizzato il suo modo di essere. A 15 anni, le prime escursioni di là: durante una partita con le giovanili del Nacional Montevideo si fa una corsa di cinquanta metri per contestare una decisione arbitrale; lui viene espulso, ma l’arbitro finisce al tappeto. Non è orgoglioso di questo ricordo, dice; eppure da li in poi le avventure nel proibito sono ancora innumerevoli: squalifiche per frasi razziali, gesti osceni alla folla, dei morsi si è già accennato (tre le vittime).
Suarez, il Cannibale dell’Ajax lo nomina De Telegraaf. Una volta si reca persino dai dirigenti della squadra di Amsterdam per proporre di “aggiustare” un paio di partite, la propria e quella del Twente capolista, che bisogna superare. Queste cose da noi non si fanno, Luis. Ma conta solo vincere, sostiene lui. “Don’t just play it, win it” dice a proposito della Champions League quando deve giustificare il passaggio dal Liverpool al Barca.
A proposito, nella città inglese hanno provato a smussarne il caratteraccio con delle sedute dallo psicoterapeuta del team. Una seduta sola in realtà, poi Suarez decide che non fa per lui, anche per il timore di veder attenuata la sua natura, la sua competitività, il suo essere el pesado, il giocatore che provoca e infastidisce l’avversario per destabilizzarlo.
“L’unica regola nel calcio è che non puoi usare le mani”.
La verità è che rispetto al senso comune, Suarez ha una concezione diversa di ciò che e accettabile e di ciò che non lo è: ha sempre dovuto farsi largo per emergere, più di tanti altri, sgomitando tra mille difficoltà.
Sette fratelli, sette anni quando la famiglia per lavoro si sposta da Santo, un piccolo villaggio uruguagio, a Montevideo, la capitale. Un’infanzia di povertà dove è difficile persino permettersi un paio di scarpe. Il calcio di strada, poi il classico provino per una squadra di quartiere, la prima tripletta entrando da sostituto, gli occhi addosso e la nomea da giovane promessa. Lo sfacciato con la faccia sporca ama dribblare, anzi meglio mettere tutti a sedere, anzi meglio ancora irridere col tunnel, il colpo preferito.
Lo prende il Nacional, squadra principale di un Paese passionale, primo campione del mondo, che ha il calcio nel sangue. Futuro roseo da predestinato? Nemmeno per sogno, il padre abbandona la famiglia quando Suarez ha dodici anni e mamma e nonna devono faticare non poco per crescere i figli. In casa si mangia massimo una volta al giorno. Forse è in quel periodo che inizia ad agitarsi qualcosa di oscuro nel suo animo: i disastri a scuola, le brutte compagnie, la conoscenza precoce con l’alcol e una carriera che stenta a decollare. Con l’aggressione all’arbitro vorrebbe persino smettere di giocare.
Continua più per necessità e senso di responsabilità che per passione, per il bisogno e la speranza di guadagnare qualcosa che sfami la famiglia. Se diventi un habitué dell’attraversare la linea, poi tornare di qua diventa complicato. Hai bisogno di qualcuno che ti tenda una mano, che accetti e ti stia vicino negli errori, che sappia circoscrivere la tua ombra; a 15 anni, nel periodo più buio, Luis conosce Sofia. Amore di giovinezza e amore per la vita, moglie, sostegno e forza, buona coscienza nel continuo andirivieni di qua e di la della linea, tra colpi di genio e colpi “di testa”.
Cambierá mai completamente Luis? Lecito dubitarne. Perché raccontare Suarez ai giovani allora? Non è certo un esempio di etichetta o di sportività. Ne di moralità. Non lo è mai stato, senza dubbio. Ma è comunque un esempio di verità.
Il fatto è che vorremmo tutti vedere facce pulite, bravi ragazzi, esemplari dentro e fuori dal campo. Ma la realtà è luce e anche ombra. E a tutti può capitare, per ambiente o colpa, di attraversare la linea.
In un mondo che è sempre più pronto a sentenziare condannando alla prima occasione, Suarez ricorda che “c’è sempre la possibilità di pareggiare i conti, e sono orgoglioso del fatto che, per tutti i colpi, mi rialzo sempre”.
Per l’avventura proibita della libertà. Per tutti i ragazzi con la faccia sporca. Per chi sa tendere la mano di qua della linea. Per un briciolo di poesia.
https://www.youtube.com/watch?v=wjw-6MiAyxA
Fonte: articolo scritto da Tommy Dal Santo e pubblicato dal “Giornale di Vicenza” il 4/12/2019
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