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Super Tele: Alex Ferguson, maestro dell’evoluzione

10 Dicembre 2020

Super Tele: Alex Ferguson, maestro dell’evoluzione 

Domenica 7 luglio 2013. Andy Murray, tennista scozzese, viene incoronato re di Wimbledon dopo aver sconfitto in finale l’allora numero uno della classifica mondiale Novak Djokovic.

Ad Oban, tipica località marinara sulle coste della Scozia, c’è pure Alex Ferguson che assiste a quel match comodamente seduto davanti alla tv in compagnia degli amici più cari.

È pronto ad imbarcarsi per una breve crociera verso le splendide isole Ebridi, ma prima di partire è talmente affamato di vittorie ed agonismo che vuole a tutti i costi attendere la fine della gara.

Durante le ultime ventisei stagioni non ha avuto molti weekend liberi o tempo a disposizione per concedersi qualche gita di piacere, e ora che a 71 anni non è più l’allenatore del Manchester United aspetta quel tanto che basta a vedere il suo conterraneo trionfare prima di iniziare a gustarsi un po’ la navigazione.

La sua storia sulla panchina dei Red Devils comincia in un lontano giovedì di novembre del 1986. Siamo ormai allo scadere del secondo mandato di Margaret Thatcher come Primo Ministro, quando Ferguson – all’epoca quarantacinquenne – prende il posto di Ron Atkinson. Eredita una squadra penultima in classifica, con alcuni dei suoi calciatori più rappresentativi troppo confidenti col bicchiere e in uno stato di forma scadente. Fergie debutta con una sconfitta, ma non si scoraggia. In fondo è lo stesso allenatore capace di aver guidato precedentemente l’Aberdeen ad un livello mai raggiunto prima nel calcio scozzese, coronando il percorso con la storica vittoria in finale di Coppa delle Coppe del 1983 contro il Real Madrid.

Al centro sportivo di Manchester, Ferguson arriva tutte le mattine alle sei. Una fetta di pane tostato a colazione e poi subito si immerge in una montagna di scartoffie per cercare di cambiare un passo alla volta la mentalità del club.

La rigida etica del lavoro, la feroce ambizione e l’appassionata capacità di focalizzarsi sugli obiettivi sono da subito chiari capisaldi del modus operandi di Ferguson, che termina la stagione in undicesima posizione.

Di tanto in tanto solo qualche evento ippico, delle buone letture o una bottiglia di vino pregiato, riescono a distrarre Sir Alex dalla propria instancabile routine.

Fra il 1989 e il 1993 acquista giocatori destinati a comporre la spina dorsale del club per molte stagioni a venire come Ince, Schmeichel, Kanchelkis e soprattutto Eric Cantona.

Inizia a diventare un manager completo Ferguson, assumendo in toto la gestione di ogni aspetto del club.

È allenatore e direttore sportivo, tiene d’occhio i conti e fa crescere il settore giovanile.

Garantire la sostenibilità finanziaria, mantenendo inalterate le performance sportive potendo contare sullo zoccolo duro di giocatori cresciuti nell’academy del club, sarà una delle peculiarità dell’era Ferguson.

Le fondamenta degli innumerevoli successi degli anni a venire risiedono infatti nel gruppo di straordinari calciatori meglio conosciuto come la “Class of ‘92”. Il gruppetto di talento, composto da Ryan Giggs, Paul Scholes, Nicky Butt, Gary e Phil Neville e David Beckham, durante un’amichevole infrasettimanale sorprende a tal punto il coach scozzese da essere in breve tempo promosso in prima squadra. Lo stesso Ferguson sottolineerà più volte come l’architettura dell’anima dell’intero club si imperniò proprio su quello straordinario gruppo di calciatori. Cresciuti insieme nel settore giovanile, sono la base dorata su cui il Manchester United realizzerà la propria leggenda.

Non ha tempo però per lucidare la sua prima FA Cup del ’90, giunta dopo che nei mesi precedenti Ferguson sembrava oramai vicino all’esonero, né per lustrare in bacheca la prima Premier League del ’93 guadagnata dopo ben ventisei anni dall’ultimo campionato vinto dal Manchester.

«Mia moglie Cathy non ha mai voluto che tenessimo alcun trofeo o riconoscimento calcistico in casa. Le rare volte in cui veniva allo stadio era un biglietto sprecato, poiché spesso passava i novanta minuti a chiacchierare con la sorella in tribuna. Tutto ciò che riguarda la mia carriera è sempre stato conservato al museo del club.»

Il pragmatismo e la ferrea ricerca della vittoria di Ferguson si riflettono nella sua straordinaria capacità di evolversi tatticamente e di adattare la squadra alle mutevoli dinamiche del gioco.

Taglia e cuce come un sarto, in testa il primo obiettivo del manager cioè quello di “rendere felici i fans e vincere la partita della domenica”.

In campo schiera spesso un 4-4-2, o meglio un 4-4-1-1 e propone un calcio aggressivo e intenso, proattivo e veloce. La capacità di riconquistare palla e attaccare con qualità ad altissime velocità sono tratti peculiari delle formazioni di Ferguson. Le sue diverse versioni di Manchester United contano su una solida linea difensiva a quattro – oltre ai terzini Neville, ricordiamo come centrali in epoche diverse Stam e Rio Ferdinand – due esterni alti veloci, tecnici e offensivi (Beckham, Giggs, Cristiano Ronaldo, Kanchelkis), due centrocampisti centrali di lotta e di governo, con le caratteristiche per garantire il mix perfetto fra energia e creatività (Butt, Ince, Keane, Scholes) e due attaccanti “affilati”, con uno che funge da riferimento avanzato e terminale offensivo e il secondo che invece si muove nello spazio fra centrocampo e difesa avversaria per filtranti e seconde palle. Cantona e Hughes furono sostituiti dai “Calypso Boys” Cole e Yorke, nel corso degli anni successivi poi si alternarono Van Nilsterooy con il tentativo (naufragato) di avanzare Scholes per fare spazio in mezzo al neo-acquisto Veron, e altri calibri come Tevez e Rooney.

Jonathan Wilson, sommo storico del calcio, racconta come la sconfitta casalinga subita dallo United nel 2000 in Champions ad opera del Real Madrid di Del Bosque convince Ferguson a virare in Europa su una filosofia maggiormente conservativa.

«Quella sconfitta – racconta Fergie – rese evidente come in campo europeo sarebbe stato più semplice primeggiare se avessimo migliorato la nostra capacità di difenderci da ripartenze e transizioni avversarie

Anziché creare 15 occasioni e lasciare agli avversari 5 palle gol, Ferguson preferisce avere solo 5 chance ma senza lasciare alcuna possibilità di segnare ai rivali.

Il cambiamento non è semplice e passa naturalmente da alcune difficoltà. Non è un caso che talvolta, soprattutto in patria, in occasione dei big-match a Ferguson spesso sia stato imputato i limite legato al cosiddetto concetto di “overthinking” (oggi spesso citato nei confronti di Guardiola), cioè di pensare troppo nei momenti che contano. Tale “abuso di pensieri” porterebbe i manager a trovare soluzioni talmente sperimentali in cui il tentativo di sorprendere finisce per mettere invece in difficoltà la propria squadra.

Un secondo elemento acceleratore della trasformazione del calcio di Ferguson è l’avvento in Premier di Josè Mourinho. Il tecnico portoghese vince due campionati con il Chelsea schierando costantemente la squadra con il 4-3-3, modulo che sarà ripreso allo United dallo stesso Ferguson. Il Manchester inizia a distribuirsi in campo spesso con questo sistema e senza a volte un vero centravanti di ruolo, o comunque con interpreti, per esempio Tevez e Rooney, maggiormente predisposti per dinamismo e caratteristiche tecniche e atletiche a una maggiore fluidità, rispetto al classico attaccante “old-school”.

Tale cambiamento si accompagna a un’altra intuizione pioneristica di Fergie il quale, soprattutto in Europa, inizia ad utilizzare alcuni dei propri attaccanti con funzioni principalmente difensive.

Rooney è un emblema di questa idea, catechizzato al Camp Nou per frenare le scorribande di Messi sulla fascia o adoperato in casa contro il Porto per bloccare le sfuriate del terzino opposto Cissokho, svincolando quindi Cristiano Ronaldo da qualsiasi corsa di rientro.

Il miglior rappresentante però di questa concezione – la stessa che porterà Mourinho all’Inter a mettere in campo Eto’o e Pandev sulle corsie esterne come attaccanti-difensori – è il coreano Park Ji-sung che per abnegazione, letture e capacità di supportare costantemente entrambe le fasi diventa un titolare pressoché inamovibile del Manchester della seconda metà del primo decennio del Duemila.

L’urlo di Old Trafford accompagna negli anni i successi della squadra e anzi, li spinge e li guida durante quei minuti finali che diventeranno la “zona Fergie”. La capacità di vincere oltre 60 partite con una rete segnata negli ultimi dieci minuti di gara o durante il recupero non si può spiegare col semplice gesto nei confronti dell’arbitro, con l’indice appoggiato sul quadrante dell’orologio in segno di richiesta di recupero, che ha reso iconico l’allenatore scozzese.

«Francamente non sapevo nemmeno quanti minuti mancassero veramente, quando mostravo il mio orologio. Ma volevo che oltre all’arbitro, mi vedessero gli avversari, per segnalare loro che era venuto il momento in cui la mistica di Old Trafford e la potenza che avremmo sprigionato in quegli ultimi minuti li avrebbe comunque fatti soccombere. Era un piccolo trucco per scatenare una suggestione collettiva. Spesso durante l’intervallo, con oltre 65mila persone che ruggivano, dovevo mantenere la calma e dare messaggi di tranquillità ai miei giocatori. Ma negli ultimi minuti valeva la pena giocare d’azzardo e spingere la squadra con messaggi meno razionali. A volte non funzionava comunque, ma spesso ci portava a segnare e a ricavarne vantaggi incommensurabili. Segnare un gol importante agli ultimi minuti riversava addosso ai giocatori e a noi dello staff la scossa adrenalinica di tutto lo stadio, un’incredibile mareggiata di energia positiva che avrebbe alimentato il morale e l’umore di tutti per i giorni e le sfide successive.»

Questa ferrea volontà rappresentava devozione, capacità di andare oltre i propri limiti, fede infinita e quel pizzico di fortuna che serve a scolpire leggendarie vittorie come l’epica Champions del ’99 alzata dal Manchester a Barcellona dopo aver annichilito il Bayern Monaco con due gol oltre il novantesimo.

Tutte qualità e valori che Ferguson sapeva non solo trasmettere ai propri uomini, ma che appartenevano ai giocatori che lui stesso sceglieva.  Ha sempre amato i calciatori di personalità come Roy Keane, capitano dal cuore impetuoso, acquistato nell’estate del ’93 dal Nottingham Forest per una cifra all’epoca monstre di quasi 4 milioni di sterline.

Se la Juventus di Marcello Lippi è un modello – «di loro ho sempre ammirato prima di tutto lo spirito di squadra che avevano» ammetterà Ferguson – battere la squadra bianconera di Ancelotti nel ’99 con una straordinaria rimonta in trasferta per 3-2, iniziata proprio con una rete di testa di Keane, era il segnale inequivocabile che si trattava della stagione giusta per vincere la prima Champions dell’allenatore scozzese.

Spietato, sicuro di sé, insuperabile nel comando e nella gestione di molti frontman a livello planetario, Ferguson non ha mai avuto problemi nell’utilizzare maniere spicce per domare i propri migliori cavalli da gara. Rispondere prontamente e, se necessario, anche in maniera netta ai primi accenni di insubordinazione è una delle peculiarità per un ciclo da manager ad alti livelli. Lo testimoniano le avventure di Keane e Van Nilsterooy, terminate in breve tempo dopo aver provato a mettere in discussione scelte, regole e dettami di Fergie.

«Non bisogna chiedersi se in qualche maniera noi piacciamo ai nostri giocatori. Se faccio bene il mio lavoro, i miei giocatori mi rispetteranno. Ed è tutto ciò di cui ha bisogno un tecnico. Per questo motivo mantenere il controllo è vitale.»

Se lo scarpino in faccia a Beckham è oramai storia, ci sono due episodi che ci aiutano ad inquadrare meglio il carattere di Ferguson e la sua competenza comunicativa. Fu un antesignano di Mourinho nella capacità di difendere i propri giocatori di fronte ai media, per non lesinare qualche lavata di capo o carezza in privato, a seconda di ciò che situazione e carattere del calciatore richiedevano.

Dopo una sconfitta a Liverpool, cui seguì un furioso litigio con Schmeichel, il Boss convocò il portiere danese nel proprio ufficio. «Devo licenziarti», esordì in tono perentorio Fergie. Le scuse che Schmeichel immediatamente rivolse al coach e a tutti i compagni di squadra erano esattamente ciò che l’allenatore voleva ottenere. Il licenziamento fu quindi congelato, permettendo all’estremo di continuare ancora per molte stagioni a difendere i pali di Old Trafford e a Ferguson di mantenere intatta la sua autorità.

Con Cantona invece l’approccio fu molto diverso. «Dopo la squalifica per 8 mesi Eric voleva smettere – ammette Sir Alex – Presi un aereo per Parigi e lo incontrai in un ristorante, chiuso al pubblico per l’occasione, insieme al suo legale e alla segretaria dell’avvocato. Trascorsi tutto il tempo a chiacchierare con lui di calcio e a parlare dei migliori. Pelè, Maradona, Cruijff, senza trascurare le storie delle finali di Coppa del Mondo e Campionati Europei. Aveva una passione incredibile per il calcio e bastò quella chiacchierata per fargli ritrovare il desiderio di tornare in campo

In numerose interviste e meeting universitari cui ha partecipato dopo aver smesso i panni da mister, Ferguson racconta come preferisse comunicare in privato ai suoi calciatori quelle scelte, magari dolorose, come per esempio quella di escludere un giocatore dall’undici iniziale.

Durante gli allenamenti invece tutto lo staff è coinvolto nell’enfatizzare gli aspetti positivi.

«Non servono superlativi. Ogni essere umano gradisce un apprezzamento sincero al proprio impegno e al proprio lavoro. Ben fatto. Sono le due parole più straordinarie mai inventate. Quando invece dovevo sottolineare a qualcuno un errore o la mancanza di impegno, optavo per un intervento diretto a fine partita. Preferivo esprimermi subito, in spogliatoio, così da lunedì avremmo solo pensato alla prossima gara.»

Evitare di compiacersi è uno dei dieci comandamenti scritti sulle tavole di Sir Alex Ferguson. Lo attestano direttamente i suoi giocatori, che dopo aver vinto ai rigori contro il Chelsea la Champions League nel 2008, narrano come il proprio allenatore anziché congratularsi, si riferì al gruppo in questi termini: «Se qualcuno non vuole vincere la Champions dell’anno prossimo, gli straccio il contratto adesso

Allenarsi e prepararsi come se ci fosse sempre qualcun altro in testa alla classifica, pensare e agire come secondi per continuare a rimanere al vertice è qualcosa di più di un semplice mantra motivazionale. Per Ferguson è la spinta operaia della working-class, quella forza che ti spinge sempre avanti, per evitare di ritornare dai bassifondi da cui si è partiti.

«Domani è sempre un altro giorno. Non importa ciò che hai vinto, ma quello che devi vincere nella prossima stagione. Dopo ogni successo per me era sempre obbligatorio resettare. Bisogna stare lontani dall’auto-condiscendenza, compiacersi è una patologia. Responsabilità e pressioni non mi hanno mai spaventato, la mia unica paura era quella di cadere dal gradino più alto. La sconfitta in sé non era un problema, era fondamentale come avremmo saputo gestire il momento dell’insuccesso perché vincere per molti anni è piuttosto difficile, perciò è fondamentale il carattere e la personalità della squadra.»

https://www.youtube.com/watch?v=wu4zGg3AmDI

Va sottolineato come Ferguson sia riuscito a conquistare col solo United 38 trofei (fra cui 13 Premier, 2 Champions, 2 Mondiali per club) grazie all’iniziale fiducia, nonostante il primo triennio fosse trascorso senza alcuna vittoria. È durante quel periodo senza risultati, in cui gli viene comunque concesso di lavorare senza interruzioni malgrado le pressioni di media e tifosi stanchi di successi che non arrivavano, che inizia a gettare le basi per ricostruire il club.

«Quando sono arrivato a Manchester, la squadra aveva solo un giocatore sotto i 24 anni. Per le mie esperienze precedenti, ero convinto si potesse vincere coi giovani ma in genere molti allenatori preferiscono affidarsi a giocatori più esperti per la necessità di portare subito dei risultati. Perciò, sono convinto che l’apporto di giocatori basilari, cresciuti nel settore giovanile, fu decisivo nella costruzione del club e delle future vittorie. Perché raggiungere numerosi successi contando sulle forze dell’Academy ha dato a tutto il club solidità e compattezza. Mi è sempre piaciuto lavorare con giovani giocatori, è incredibile quanto ti restituiscano e quanto siano capaci di sorprenderti se riesci a dare loro le opportunità che si meritano

Non è un caso quindi che l’allenatore scozzese periodicamente – dopo un ciclo di 4-5 stagioni – apportasse dei cambiamenti all’interno della rosa puntando su nuovi e giovani talenti, senza disdegnare qualche inevitabile colpo sul mercato dei calciatori più affermati. Si tratta di una vera e propria strategia manageriale, l’unica possibile per mantenere il club ai più alti livelli nel corso dei decenni.

«L’obiettivo era quello di evolversi gradualmente, lasciando andare qualche giocatore ormai a fine corsa e inserendo piano piano le nuove leve. Ci chiedevamo continuamente come saremmo stati da qui a due stagioni in avanti e in quale direzione volevamo intervenire. Solo qualche giocatore straordinario come Giggs o Scholes può reggere all’età che avanza. Per il resto, la cosa più difficile in assoluto del mio lavoro era quella di far accettare l’evidenza del campo a qualche ragazzo che aveva dato tutto per la nostra maglia, ma che diventava inevitabile sostituire.»

https://www.youtube.com/watch?v=FwOSn1TZiBU

Intensità, concentrazione e velocità sono i capisaldi di ogni singola sessione di allenamento alla guida di Ferguson. Il mister era il veicolo principale di etica del lavoro e appassionata dedizione che permettevano ai giocatori di consacrarsi come “top-player” grazie ad alti e continuativi livelli di performance. «Il mio focus era quello di alzare le aspettative dei miei calciatori. Costantemente spiegavo al gruppo e allo staff come lavorare duro sul talento. Cercavo di dare l’esempio arrivando sempre al campo per primo. Practice, practice, practice! Tutti possono giocare una partita di calcio, ma allenarsi, lavorare duro, essere professionali è ciò che ti renderà un calciatore

La filosofia socialdemocratica e laburista di Ferguson si rispecchia non solo nell’etica del lavoro e della volontà di credere l’uno nell’altro trasmessa alla propria squadra, ma allo stesso tempo nella serenità con cui Ferguson era in grado di accettare vittoria o sconfitta e brindare a fine partita, qualsiasi fosse il risultato, insieme al manager della squadra avversaria. Ospitare nel proprio ufficio l’allenatore avversario, fare due chiacchiere che non riguardassero mai quanto appena visto in campo, sorseggiare insieme qualche calice di vino prestigioso era un modo per ricordare a Ferguson di come in fondo si parlasse solo di calcio.

Un breve momento di relax, per sciogliere la tensione agonistica e ricaricare le batterie, per ripartire poi subito consacrando la nuova settimana di lavoro, con devozione estrema, all’idea di essere il migliore, lavorando fino allo stremo – in maniera totalizzante – per poterlo dimostrare.

L’uomo che non poteva ritirarsi ha smesso i panni da coach dopo un regno ininterrotto sulla panchina del Teatro dei Sogni durato 1.500 partite. Ha rincorso costantemente, in ogni momento, la vittoria come obiettivo principale, senza mai perdere la voglia di mettersi in gioco e la capacità di rischiare.

Con il sempre fedele chewing-gum ad accompagnare le elucubrazioni dei novanta minuti, il cappotto e la sua tipica posa a bordo campo è durato più a lungo di quanto lo abbiano fatto 24 tecnici diversi al Real Madrid, 19 all’Inter, 18 al Chelsea e 14 sulla panchina dei cugini del City.

Controllare il cambiamento, accettare l’evoluzione tattica, finanziaria e comunicativa del sistema-calcio, anticipare e comprendere in quale direzione stava andando lo sport, è il più grande merito di Sir Alex. Le chiavi fondamentali che hanno permesso a Ferguson di attraversare, con il piglio da timoniere sicuro, le differenti epoche attraversate in carriera. Unica costante? Quella di continuare a vincere ai massimi livelli, per un periodo così lungo come mai a nessuno sia accaduto prima e dopo di lui.

È stato l’ultimo manager “a tutto tondo” di un calcio diverso, non solo in campo, ancora non stravolto da procuratori, posticipi, social network e big-data.

Oggi forse il solo Klopp – che diversamente da Guardiola interviene in toto su aspetti che riguardano mercato, organizzazione dello staff, sviluppo del nuovo centro sportivo – pare essere in grado di raccogliere l’eredità dello scozzese all’interno del calcio inglese ed europeo, per la capacità di incidere in maniera globale su ogni livello del club. Intanto, lo United appare ancora alla ricerca di una nuova stabilità, che spera di trovare nella guida odierna di Solskjaer, ex allievo di Fergie.

Di Ferguson il nostro C.T. Roberto Mancini una volta ha detto “è come una seggiola dello stadio, come l’erba del campo. È una parte dell’essenza del Manchester United.”

Il rispetto conquistato da tifosi e addetti ai lavori nel corso degli anni, la statua che lo rappresenta all’ingresso dello stadio, la gradinata nord a lui intitolata spiega meglio di qualsiasi altra parola il mito di Sir Alex, capitano coraggioso che ha esplorato tutti i lidi della vittoria.

Per qualcuno è stato un lavoratore instancabile, una guida carismatica che ha traghettato il club verso vertici inattesi, per altri invece un cinico spietato che ha curato sempre in primis i propri interessi e la propria sete di controllo.

Ciò che è certo è che di Ferguson resterà il furore, il suo indefesso lavoro, la competenza evolutiva che lo ha portato a guidare per quasi tre decenni la nave dei Red Devils attraverso orizzonti e mari fino ad allora sconosciuti, e a scrivere il proprio nome fra le pagine più importanti del diario di bordo della storia del calcio.

«Ero appena stato promosso first-team coach allo United quando Sir Alex mi chiamò nel suo ufficio. Ascolta Ren – mi disse – un breve confronto per dirti come voglio che la squadra giochi. Quando attacchiamo, voglio che lo facciamo con ritmo, potenza, profondità e imprevedibilità. Bang, bang, bang, bang. Parlava allo stesso modo in cui avrebbe voluto che la sua squadra giocasse.»

René Meulensteen – Allenatore olandese – First Team Coach al Manchester United (il primo assistente di Ferguson) fra il 2007 e il 2013

 

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