Super Tele: El Trinche Carlovich, Essenza del calcio libero
«Non mi è mai piaciuto stare lontano dal mio quartiere, dalla casa dei miei genitori, dal bar dove vado di solito, dai miei amici e dal “Vasco” Artola, che mi ha insegnato come colpire la palla quando ero un ragazzo»
In Argentina “el potrero” è un terreno incontaminato, il pascolo destinato all’allevamento dei cavalli. Un luogo selvaggio e sconfinato, dove crescono i puledri e i “gauchos” assaporano l’infinita libertà della pampa, cavalcando ogni giorno attraverso l’immenso panorama del sud del mondo.
È sul finire degli anni Venti che questo concetto inizia ad essere abbinato a spazi urbani con sfumature calcistiche. Succede quando il giornalista uruguagio Borocotò – al secolo Ricardo Lorenzo Rodríguez – definisce sulle pagine della storica rivista El Grafico la teoria del “dribbling creolo”: secondo questo teorema i figli degli immigrati latini, diversamente da quelli di genitori britannici, erano maggiormente dotati di una grande qualità che risponde al nome di immaginazione.
Infatti, se per gli inglesi il calcio si impara tradizionalmente a scuola, i pibes degli immigrati apprendono attraverso il gioco di strada.
Le loro competenze e abilità si sviluppano proprio nei potreros, spazi vuoti delle città che diventano campi in cui sviluppare fantasia e appunto capacità d’immaginazione.
La libertà dei pibes, come quella dei gauchos e dei loro cavalli, si forma in un luogo dove non esistono regole se non quelle autodeterminate, senza maestri o allenatori a interrompere un flusso di apprendimento e divertimento costante e irrefrenabile.
Le dimensioni diverse e irregolari di questi campi improvvisati, in genere comunque connotati da contorni ridotti, aiutano bambini e ragazzi a diventare maestri dell’arte del dribbling, unico gesto che consente – in quelle condizioni complicate – di mantenere la palla sotto il proprio controllo.
Spontaneità e immediatezza slegate da qualsivoglia logica di risultato, una sfera esistenziale in cui non entrano donne né insegnanti, dove anche l’uomo divenuto adulto torna bambino e gioca per il puro gusto di farlo.
Essere capace di mantenere uno stile di gioco puro e inalterato, come ai tempi delle sfide nei potreros di quartiere, è forse la virtù principale di Tomás Felipe Carlovich, da tutti i tifosi rosarini conosciuto come “El Trinche”. Nessuno sa esattamente da dove arrivi questo soprannome, che parrebbe richiamare il Trinchador (l’intagliatore), ma poco importa perché questo misterioso nomignolo bene si appiccica alla parabola leggendaria di un calciatore riconosciuto come uno degli argentini più forti di sempre, malgrado una carriera priva di palcoscenici importanti.
Nato a Rosario nell’aprile del’46, Tomás è il più giovane di sette fratelli. Il padre, emigrante croato, lavora come idraulico e al figlio più piccolo ha donato una struttura fisica importante e venature balcaniche in volto.
Vive a Belgrano, barrio storico della città che prende il nome dall’intellettuale e generale Manuel Belgrano, inventore della bandiera nazionale caratterizzata dal Sol de Mayo.
Col pallone Tomás se la cava piuttosto bene e sul finire degli anni Sessanta debutta nella Primera con la maglia del Rosario Central.
Dopo qualche stagione passa al Central Córdoba, in serie B, nella squadra che diventerà la sua dimora ed è qui che la storia del Trinche si scolpisce sino a diventare mito. Nell’aprile del 1974 infatti l’Argentina del c.t. Cap affronta, prima di partire per il Mondiale tedesco, una partita amichevole di fronte a una sorta di nazionale di stelle rosarine. Fra le fila di questa selezione vi sono giocatori del calibro di Kempes e Killer – difensore dal nomen omen – che quattro anni dopo diventeranno campione del mondo.
Il volano central di quella “All Star”, composto da 5 giocatori del Rosario e 5 del Newell’s, è proprio Carlovich, unico convocato che non appartenesse a una delle due squadre principali. El Trinche è in forma splendida e davanti alla difesa fa impazzire i connazionali più famosi. Manovra i ritmi, gestisce i tempi e, senza dimenticare il piacere di regalare qualche numero dei suoi alla platea, dirige un’orchestra inarrestabile.
È il violinista che armonizza i suoni di tutti i compagni, col proprio mancino dispensa geometrie e assoli soavi. L’Argentina non vede letteralmente palla e la prima frazione di gioco si chiude sul 3-0 per la squadra di Rosario.
All’intervallo il selezionatore della Nazionale si avvicina al mister avversario e gli chiede se per favore può togliere dal campo quel Trinche. Perché va bene tutto, ma uno sconosciuto che umilia i calciatori più celebri di tutto il Paese era un’onta da fermare a tutti i costi.
Gioca davanti alla difesa, usa quasi esclusivamente il proprio divino sinistro, è un calciatore moderno e associativo che riesce ad esprimersi con grande qualità e precisione sia sul gioco corto, sia su traiettorie lunghe in verticale o in ampiezza. Nonostante un corpo alto e pesante è un abile palleggiatore che in campo si tramuta in farfalla grazie alle sue capacità anticipatorie di “vedere” il gioco e leggere gli spazi. Un falso lento, se così posso dire, che diventa rapidissimo grazie a velocità decisionale e ad interpretazioni accelerate delle situazioni. El Trinche stesso di sé dice che “mezzo secondo prima dello sviluppo sapevo già dove sarebbe andata la palla o dove ci sarebbe stato bisogno di dirigerla o passarla”. La sua capacità di dominare la palla era paragonabile a quella di Riquelme, la sua bravura nel gestire il gioco a quella di Redondo.
Cresciuto nei potreros, da buon pibe con sangue slavo inoltre non disdegna di deliziare gli spettatori con tocchi e numeri che marcano il suo stile.
Oltre a dribbling, sombreri e soprattutto colpi di tacco, Carlovich è famoso per il tunnel “de ida y vuelta”, un doppio tunnel andata e ritorno che era diventato il suo marchio di fabbrica. Andata, la palla passa sotto le gambe del malcapitato avversario e ritorno con il Trinche che, senza perdere il controllo della sfera, la riportava verso di sé con tremenda abilità.
Ha gambe lunghe e capelli al vento, spesso porta i baffi o la barba incolta. Il suo look boemio, da scapigliato antisistema, lo rende ancora più simpatico alla sua gente, innamorata come lui dell’essenza innocente del futbol.
Ama le donne, dormire fino a tardi e andare a pescare. È refrattario agli allenamenti, agli schemi, agli orari e alle regole del calcio professionistico, è il re del potrero, della quintessenza del gioco ed è talmente bravo che allo stadio il prezzo del biglietto è più alto quando gioca El Trinche. Succedeva spesso che la domenica alcuni tifosi prima della partita si avvicinassero alla biglietteria dello stadio Gabino Sosa per sapere se avrebbe giocato o meno, altrimenti non sarebbero entrati ad assistere al match. Perciò successivamente la sua squadra si era presa la briga di preannunciare nei cartelli all’esterno la sua presenza con quel motto che definì la sua carriera: “Esta noche juega El Trinche”.
Naviga per alcune stagioni con maglie diverse (Indipendiente Rivadavia, Colon, Deportivo Maipú) fra serie B e serie C argentina, e per chiudere la carriera sceglie di tornare a casa con l’amata camiseta del Central Córdoba che nell’82 aiuta a ritornare nella seconda serie.
Si narra che durante una gara, dopo aver ricevuto un cartellino rosso, il pubblico abbia iniziato ad inveire contro l’arbitro costringendolo a cambiare idea al grido di “rivogliamo i nostri soldi”. Ritiratosi a 37 anni, ha dichiarato che per lui giocare con il Central Cordoba fu come indossare la maglia del Real Madrid.
L’esistenza di Carlovich, che Pelè avrebbe voluto portare al Cosmos, passeggia su un continuo contorno sfumato fra leggenda e magia. È la vicenda di un uomo innamorato del calcio e della sua gente in modo talmente folle da perdere l’appuntamento con la storia.
Prima del Mondiale casalingo del 1978 leggenda vuole infatti che Carlovich preferisca andare a pescare, trattenuto dai riflessi delle acque del fiume Paranà, piuttosto di raggiungere a Buenos Aires il c.t. Menotti che lo aveva chiamato per la pre-selezione. Ancora oggi Menotti ricorda con mirabile sintesi come “gli piacesse di più giocare a calcio che essere un professionista.” Un altro episodio appurato racconta di come prima di una partita, nonostante El Trinche fosse privo di documento, sia stato effettuato il riconoscimento da parte dell’arbitro per merito di un dirigente avversario che non voleva perdersi l’occasione di vederlo giocare dal vivo.
Per Jorge Valdano era “al posto giusto nel momento sbagliato”. Si trovò al centro di un cambiamento epocale del calcio argentino, in cui i preparatori atletici e la parte fisica diventarono preponderanti, e molti allenatori iniziarono a professare un calcio decisamente muscolare.
Lungo il solco storico del rapporto in costante equilibrio fra passione e genialità che ancora oggi riscontriamo fra Rosario e il gioco del calcio – il cui esponente più brillante Leo Messi – confluisce perfettamente la vicenda del Trinche che rappresenta l’iconografia della città. È il rappresentante perfetto dello stile rosarino, conosciuto in tutto il mondo per l’abilità tecnica come tratto distintivo.
Maradona, quando nel ’93 indossò per alcune partite la maglia del Newell’s, davanti ai giornalisti che lo osannavano definendolo come il più grande che avesse giocato a Rosario, incoronò per sempre El Trinche: «Mi spiace, ma il più forte è stato Carlovich.»
Aveva le carte in regola per essere un fuoriclasse globale, per Pekerman fu il miglior numero 5 argentino di tutti i tempi. Fra i suoi estimatori celebri anche Marcelo Bielsa (altro rosarino doc) che per quattro anni ogni sabato lo va a vedere dal vivo. E come accade a El Loco, tutti i tifosi di Rosario impazziscono per il Trinche e per il suo gusto di giocare per giocare, giocare per il puro piacere di farlo.
Alla gloria e ai lustrini Carlovich preferiva il silenzio dello spogliatoio, la libertà di poter giocare come e quando voleva, come ai tempi del potrero, come un gauchos che attraversa la pampa lontano dagli intrighi, dal traffico, dalle norme e dai denari che spesso infestano la civiltà.
È nato per giocare, lo fa in maniera “lirica” e irripetibile, sino a diventare simbolo di un calcio romantico oramai tramontato. È il tipico giocatore del barrio, cresciuto nella strada e su campi di terra, con palloni di stoffa dove si impara a pensare con i piedi senza regole imposte né allenatori, senza pressioni né disciplina.
Non esistono testimonianze video o documenti della sua arte pedatoria, è stato sempre escluso dai radar del grande pubblico a causa del suo percorso sotterraneo e perciò in Argentina molti lo definiscono come “il calciatore fantasma”. Ma forse la definizione che meglio spiega la vicenda di Carlovich è quella del “Maradona que no fue”, una storia di ciò che poteva essere e non è stato, di chi non ha voluto per forza di cose diventare qualcuno o qualcosa, la storia di chi ha sempre intensamente vissuto seguendo il proprio istinto senza per forza scendere a compromessi con quanto richiede il sistema, la storia di un uomo che semplicemente ha desiderato vivere il gioco del calcio senza sovrastrutture e imposizioni, senza mai sentire il bisogno di adattarsi a tutto ciò che considerava estraneo in cambio di ciò che gli uomini sono soliti chiamare successo.
La sorte ha voluto che a costargli la morte sia stata proprio la mano della sua gente. Nei giorni scorsi è stato aggredito lungo calle Eva Perón da alcuni malfattori che nel tentativo di rapinarlo della propria bicicletta lo hanno spintonato e fatto cadere, procurandogli traumi gravi e numerose percosse, tali da indurlo al coma.
El Trinche da quel giorno non si è più svegliato e la sua storia oggi risplende della luce immortale dell’eternità.
Un genio libero nella sua naturalezza espressiva, stella invisibile la cui scia continuerà a brillare sui marciapiedi dei barrios della sua città.
A Carlovich una band argentina ha dedicato una canzone, che cita un adagio ancora oggi da molti conosciuto in tutta Rosario e che racconta bene la fama di Tomás. Girava questa voce in città, che saltava da una casa a un negozio, attraversava il quartiere e passava da un orecchio all’altro per annunciare quelle grandi serate in cui si sapeva che avrebbe illuminato la scena.
“Chiudete presto le porte di casa e correte allo stadio perché stanotte gioca El Trinche”.
«A chi mi domanda perché non sono arrivato chiedo: cosa significa arrivare? Io volevo solo giocare a pallone e stare con le persone che amo, e loro vivono tutte qui, a Rosario.»