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Il Mio Angolo Personale

Il gioco del calcio si insegna o no?

2 Luglio 2022

“Tra me e il pallone c’è un rapporto speciale. Ancora oggi, come quando ero bambino, so già come dovrò trattarlo e cosa dovrò farne prima ancora che mi arrivi tra i piedi.”

(Leo Messi)

Il verbo insegnare sta a significare “fare in modo – con le parole, con spiegazioni, o anche solo con l’esempio – che qualcun altro acquisti una o più conoscenze, un’abitudine o la capacità di […]”.

Nel corso degli ultimi anni mi sono ricreduto parecchio sulla possibilità o meno di insegnare il gioco del calcio, perché, come scrivevo in un altro recente articolo, il nostro è uno sport estremamente complesso, in cui la predisposizione e il talento del singolo la fan da padrone.

Per ingenuità probabilmente, ero portato a credere che far migliorare un ragazzo, aiutandolo a comprendere la complessità del contesto che muta attorno a lui durante una gara, significasse già di per sé insegnargli a giocare a calcio.

Se “il calcio si gioca innanzitutto con la testa“, come amava sostenere Johan Crujiff, è perché per vivere ogni giorno nell’ambiente che ci circonda, adattando i nostri comportamenti in relazione al contesto, la mente utilizza una serie di processi cognitivi, quali: attenzione, percezione, emozioni, memorie a breve e a lungo termine, pensiero e ragionamento, linguaggio e apprendimento.

Queste funzioni cognitive sono abilità organizzate dal cervello e che si acquisiscono fin dalla nascita ma, se già nel 1997 Shephard dimostrò come un programma di educazione fisica giornaliera migliori lo sviluppo psicomotorio e la rapidità della capacità di apprendere, mi vien da chiedermi quanto conti la genetica e quanto invece il numero di ore passate a giocare.

Come mai spesso i secondi geniti, con fratelli che giocano a calcio, sono più bravi dei primogeniti? Perché, genetica a parte in questo caso, hanno passato probabilmente molto tempo a giocare con chi quella disciplina già la praticava.

A vedere questa clip qualcuno potrebbe pensare che a Sebastiano (U14) qualcuno abbia insegnato e dimostrato (…) queste tre soluzioni, ma la verità è che ho avuto la fortuna di allenarlo anche in U9 e in U10, e queste giocate per lui erano già allora la normalità.

Quello che magari posso affermare a mio favore è di avergli creato, quando era soprattutto bambino, un ambiente in cui potesse sprigionare tutta la propria creatività/fantasia, incoraggiandolo ad osare sempre di più.

In questo senso mi trovano ampiamente d’accordo le parole di Edgardo Zanoli, che ha definito l’allenatore “un creatore di contesti, di situazioni, in cui il giocatore possa essere in grado di apprendere individualmente all’interno del collettivo”.

Ma perché allora i compagni di Sebastiano, che hanno effettuato i suoi stessi allenamenti negli anni, non hanno acquisito la stessa padronanza tecnica (per non parlare del resto)?

La verità è che il monte ore che un giocatore investe nella pratica sportiva fa dannatamente la differenza. In Sud America hanno forse strutture mega-galattiche o allenatori di settore giovanile a cui dovremmo sentirci inferiori? La differenza è culturale. Quando un bambino/ragazzino italiano non è calcio, è probabilmente a casa e davanti ad uno smartphone. Nei paesi meno benestanti i ragazzi continuano a trascorrere ore e ore semplicemente a giocare, a sperimentare soluzioni che presto diventeranno esperienze e abitudini nel loro bagaglio motorio.

Avendo allenato anche il fratello più grande (2006) di Sebastiano (2008), ricordo che il secondo veniva più di qualche volta ad allenarsi coi Pulcini quando giocava nei Primi Calci. Il papà mi scriveva: “Sebastiano ha voglia di giocare. Può venire a fare qualche allenamento extra coi più grandi”?

E questo alla lunga ha contribuito a far la differenza.

E che dire di Matteo, unico 2011 (U11) inserito nella rosa dei 2010. In più di un’occasione mi chiedeva di potersi venire ad allenare anche coi 2008 (U14), aggiungendo ulteriori minuti ai 3 allenamenti e alle 2 partite a settimana (in molti casi mi sono prodigato per organizzare una seconda partita a week end) che già svolgeva con la propria squadra; la motivazione è che a casa si annoiava e, visto il suo ottimo rendimento scolastico, preferiva venire a giocare a calcio piuttosto di stare in divano.

A fine stagione Matteo è approdato in una società professionistica, dopo che la stessa non lo aveva ritenuto pronto due stagioni fa, prima di approdare nella nostra squadra. Quando l’ho conosciuto era evidente la sua naturale predisposizione ad apprendere, oltre che il suo considerevole bagaglio tecnico che andava però incanalato verso delle soluzioni più efficaci. Sembrava inizialmente un po’ troppo giocoliere (di quelli poco funzionali), prima di riuscire a comprendere come un buon giocatore si diverte sì con la palla, ma sempre a testa alta.

In questa clip, realizzata quasi due anni dopo il suo arrivo, in una delle sue ultime partite con noi, vediamo Matteo giocare due palloni filtranti, di prima intenzione, che so di non avergli di certo insegnato io però.

Queste due giocate per me rappresentano la genialità, considerata l’età e una struttura fisica che di certo non l’ha mai aiutato ad emergere.

Quello che posso se mai dire a mio favore, anche in questo caso, è di avergli fatto sperimentare e vivere, allenamento dopo allenamento, un contesto di gioco diverso da quello che precedentemente conosceva, in cui la sua visione del calcio venisse messa al servizio del collettivo e non più solamente del singolo.

E che dire di Stefano, ragazzo di colore che nelle ultime due clip lo si vede imbucare la linea difensiva avversaria con due splendidi passaggi sull’inserimento del compagno?

Stefano, ormai alla sua terza stagione con noi, era arrivato inizialmente come centravanti, di quelli statici che si piazzano la davanti alla porta avversaria in attesa che gli arrivi il pallone.

Durante gli allenamenti però, col tempo ho incominciato a intravedervi delle caratteristiche che avrebbero (occorre anche sperimentare e andare per tentativi) potuto sposarsi con un ruolo maggiormente centrale, come quello del centrocampista.

Nel video è possibile vedere l’evoluzione, in tre momenti diversi della stagione (inizio, metà e fine), di un comportamento che abbiamo cercato di migliorare e correggere da settembre a maggio, ossia la percezione dell’intorno.

Il giocatore può quindi essere migliorato (ci mancherebbe) e, detto dell’importanza del numero di ore nella pratica sportiva, l’intervento dell’allenatore risulterà importante per aiutarlo a correggere quegli errori ai quali forse da solo non riuscirà a trovare una risposta.

In tal senso mi piace utilizzare uno stile d’insegnamento che prevede una veloce spiegazione delle consegne (ciò che non è chiaro sarà il gioco stesso a lasciarlo fluire) per poi limitarmi ad osservare cosa accade nei primi minuti, senza offrire nessun tipo di feedback. Qualora si rivelino difficoltà scelgo di intervenire cercando di far riflettere i ragazzi su quale che sia il problema, o mostrando soluzioni che magari in quel momento non conoscevano affatto (le motivazioni potrebbero essere disparate).

Perché è proprio questo il punto. Il giocatore di talento difficilmente si trova in questo empisse, in cui non riesce a trovare soluzioni creative ai problemi del gioco. Il “terrestre” invece, ha bisogno di ore e ore di pratica per riuscire a sperimentare movimenti o giocate che “l’altro” possiede grazie a madre natura.

Perché i compagni del settore giovanile di Xavi e Iniesta non sono diventati Xavi e Iniesta pur “sottoponendosi” agli stessi allenamenti?

Si potrebbe ribattere che il contesto faccia la differenza non solamente all’interno del rettangolo di gioco e, un ambiente famigliare sano, oltre che persone fidate che gravitano attorno al ragazzo, facciano la differenza tra l’arrivare e il non riuscirci.

Definire il “talento” è un concetto complesso, che si presta all’eterno dibattito sul contributo per l’eccellenza sportiva di genetica da una parte, dei processi di crescita e di sviluppo dall’altra; ci si chiede in sintesi se il talento sia un dono naturale oppure se rappresenti una condizione determinata da sacrificio, applicazione e condizioni ambientali favorevoli.

“Processi di crescita e di sviluppo”…

Allenando quest’anno appena concluso la categoria Esordienti dopo molti anni, mi sono ricordato del perché all’epoca mi era piaciuta parecchio questa fascia d’età. E’ una categoria in cui i miglioramenti sono in alcuni casi davvero veloci e nitidi, soprattutto quando c’è predisposizione ad apprendere comportamenti che per natura riusciranno ad essere interiorizzati con facilità.

E’ il caso ad esempio di Alessio (U12). In questo video riesce a mettere in pratica efficacemente tutta una serie di principi di tattica individuale sui quali abbiamo lavorato durante la stagione; cosa che non riescono a fare nemmeno giocatori anche più grandi di lui.

Alessio è però un altro di quelli che mi ha chiesto in più di un’occasione di potersi allenare anche con l’U14, spinto innanzitutto dalle motivazioni. Quando veniva il lunedì, le esercitazioni che gli piacevano maggiormente (a detta sua) erano delle situazioni di gioco ridotte in cui osservavo e correggevo principalmente la fase di non possesso. Non ha mai saputo spiegarmi il perché gli piacessero più delle altre proposte ma, vedendolo difendere, la risposta è probabilmente da ricercare nella sua naturale predisposizione ad apprendere in particolar modo queste specifiche abilità.

E come mai buona parte dei suoi compagni, che da tre anni svolgono gli stessi allenamenti, non dispongono delle stesse conoscenze?

Alessio è infatti uno di quelli che quando è in fila, in attesa del suo turno nelle situazioni ridotte, consiglia il compagno all’interno sul da farsi; sintomo che comprende la teoria prima ancora della pratica.

Il caso opposto ad Alessio (predisposizione) è forse Nicolò, esterno dotato di una “gran gamba” e dalla spiccata propensione offensiva; un laterale a tutta fascia perfetto, considerata la tecnica non eccelsa (per lavorare di qualità negli ultimi 30 metri) ma soprattutto le lacune in fase di non possesso per poter fare il terzino.

Nicolò, avuto in U14 e U15, è stato uno dei giocatori che mi ha fatto più “impazzire”. Se in fase offensiva era quasi sempre puntuale all’appello, in non possesso ha continuato a commettere puntualmente gli stessi errori, pur lavorandoci ogni santissima settimana. Due stagioni (seppur condite dalle interruzioni del COVID) a correggerlo, spiegandogli e facendogli vedere che quando accorcio sull’avversario devo frenare alla distanza corretta per evitare di farmi saltare con troppa facilità. Non c’è stato verso. Che si trattasse di allenamento o partita non faceva differenza: l’errore era sempre lo stesso.

E’ stato proprio il caso di Nicolò ad iniziare a farmi dubitare sul ruolo dell’allenatore nella correzione dell’errore, o meglio, in che misura questi può riuscire a correggere un comportamento che continua ad emergere come scorretto nonostante ci si lavori. 

Avete mai visto Theo Hernandez quando viene preso in mezzo ad un dai e vai o ad una sovrapposizione interna? Perde spesso l’uomo che s’inserisce. Parliamo di grandi campioni, che immagino vengano corretti da super professionisti che utilizzano qualsiasi strumento; eppure l’errore si presenta puntualmente, sintomo che il mio dubbio è quanto meno legittimo.

Considerazioni finali

Il tema dell’articolo è senz’altro delicato, perché sembra quasi voglia screditare l’importanza della figura dell’allenatore; ma l’intento non è certamente questo.

Scrissi tempo fa che mi piaceva pensare la figura dell’allenatore un po’ come a quella di un insegnante che lascia un segno indelebile nei giocatori che incrocia nella propria vita, ma ciò non significa però che possa trasformare una zebra in uno stallone puro sangue; seppur ricoprirà in tanti casi un ruolo chiave.

Per cercare di offrire una risposta all’eterno dilemma iniziale, credo che il gioco del calcio in parte non si insegni; o meglio, occorre fare delle precisazioni.

A mio parere vi sono gli “Illuminati” (come li definisce l’amico Marcelo), quella sorta di extraterrestri che già all’età di 6-7 anni strappano la scena con giocate marziane; basti pensare ai Maradona, Pelé, Messi, Ronaldo Luiz Nazario Da Lima. Questi rappresentano l’essenza del talento più cristallino e puro; dubito che qualcuno possa mai dissentire o che qualche allenatore abbia mai detto: “quello gliel’ho insegnato io”.

Ci sono i “fenomeni, i geni”, come i vari Xavi e Iniesta (solo per citare i due di cui ho fatto riferimento in precedenza). Giocatori che magari hanno trovato un contesto nel quale hanno potuto crescere serenamente, senza nessuna oppressione, riuscendo ad esprimere in libertà il loro naturale talento.

Scritto poi dell’importanza del monte ore passato a giocare, è opportuno però ricordare come il talento vada coltivato, lavorato e soprattutto non limitato, proprio da chi invece dovrebbe aiutarlo: l’allenatore.

E noi infatti che ci stiamo a fare?

Se consideriamo che la stragrande maggioranza dei giocatori che alleniamo gioca a calcio solamente durante gli allenamenti settimanali e che pochissimi di noi possano dire di aver accarezzato un talento, è banale comprendere quanto importante diventi ciò che noi riusciamo a dargli.

Non volendomi dilungare sull’importanza del contesto extracalcistico che gravita attorno ad un ragazzo, vedasi in primis famiglia, amicizie e “figure poco professionali”, diventa fondamentale per un calciatore incontrare sul proprio cammino allenatori che lavorino per lui e non per sé stessi. 

Se “giocano solo quando vengono a calcio”, verrebbe banale pensare di aumentare innanzitutto il tempo che trascorrono con noi; anche se questo comporterebbe aprire il vaso di pandora su spazi dove allenarsi, disponibilità delle famiglie e rimborsi per gli allenatori.

A questo punto poi spetterebbe solo a noi decidere quali mezzi operativi utilizzare per la formazione del ragazzo, ricordandoci però di lasciarlo libere di scegliere, pronti ad aiutarlo in quei momenti in cui da solo non riuscirà a trovare la via.

Foto: https://hdqwalls.com

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