Lavoro a secco – sfatiamo il tabù di Franzoso
Intro
Chi segue Ideacalcio da molti anni si sarà imbattuto almeno una volta in ciò che scrissi originariamente nel 2015 (poi aggiornato nel 2020) e che già allora ebbe una discreta risonanza sul portale di Ideacalcio: “Vincere Eliminando il Lavoro a Secco? Si può!!”.
In quell’articolo raccontavo sostanzialmente l’esperienza di quella stagione, alla guida di una squadra Giovanissimi Regionali (u15), capaci di aggiudicarsi la vittoria del campionato rinunciando totalmente al lavoro a secco. Ciò che sostenevo era per alcuni quasi senza senso, secondo la teoria che “è impossibile ottenere risultati senza il lavoro a secco. Il lavoro a secco è fondamentale“.
Leggendo quell’articolo in molti mi scrissero, confidandomi di come pure loro sostenessero il medesimo pensiero pur di fronte all’ostracismo dell’ambiente. Altri, nel corso degli anni seguenti, mi hanno in qualche modo etichettato (amichevolmente) come colui che non crede nel lavoro a secco e che porta avanti una precisa ideologia.
Se però oggi sono qui, a scrivere un articolo che ho tra le mani da almeno 7 mesi, è perché vi devo raccontare anche altre verità…
Quello che vi chiedo è di arrivare fino in fondo alla lettura senza preconcetti, traendo solamente nel finale le vostre conclusioni. Lo scopo di questo pezzo è infatti quello di condividere un’esperienza nata un po’ per caso ma che vi assicuro mi ha lasciato molti dubbi e tolto diverse ore di sonno.
Tutto ha inizio a novembre 2020…
A causa della pandemia da COVID-19 e delle restrizioni che ne sono derivate, gli allenamenti calcistici (almeno per i dilettanti) hanno subito un profondo ridimensionamento. L’assenza del contatto e l’obbligo di attività individuali, aggiunti ai rischi epidemiologici, hanno portato diverse società a chiudere completamente i battenti, riaprendoli solamente alla volta di maggio (una stagione che in questi casi può considerarsi buttata). Le altre società, nel rispetto dei protocolli, si sono dovute adattare con modalità differenti.
Personalmente, fin da inizio novembre, ho vissuto quel momento come un’opportunità per lavorare, osservare e migliorare tutti quegli aspetti/obiettivi ai quali solitamente dedico – colpevolmente – poco tempo.
Non solo opportunità, ma anche momento di sperimentazione, cercando di intuire cosa sarebbe avvenuto in seguito a mezzi operativi e finalità che fino a quel momento avevo poco considerato.
Alla guida di una squadra Giovanissimi Élite (u15) e Pulcini al secondo anno (u11), qui la storia si divide in due rami che però inevitabilmente si ritroveranno nello spazio dedicato alle conclusioni finali.
La storia coi Giovanissimi
Per scelta societaria (giusta o sbagliata che sia non è il tema) siamo passati a svolgere solamente due sedute a settimana (invece che tre), della durata di 1h45′ anziché 2 per venire incontro alle esigenze dei trasporti delle famiglie (diventati autonomi). Sempre per il secondo motivo ci siamo inoltre spostati in una struttura diversa, decisamente più piccola nel terreno di gioco ma dotata della pista d’atletica.
⚠️ (“ahia Diego, cosa stai per raccontarmi?”).
Il mio pensiero fu: “allenandoci una volta in meno a settimana e con meno minuti a disposizione, impossibilitati per mancanza di spazio e restrizioni a svolgere le solite esercitazioni ad alta intensità con la palla, se tra un mese dovesse ripartire il campionato (allenandoci in queste condizioni) fisicamente non saremmo mai pronti”.
Con questa considerazione e con la voglia di sperimentare e di vivere il momento come un’opportunità, decisi di dedicare 20-25′ a seduta al lavoro puramente atletico, spostandoci – con le dovute calzature – sulla pista d’atletica nella parte conclusiva di ogni allenamento.
Nelle 20 sedute intercorse tra il 4 novembre e il 19 febbraio – momento in cui decisi di dire definitivamente basta al lavoro a secco, ben convinto che il campionato non sarebbe mai ripartito – la scelta fu quella di far scoprire ma soprattutto far vivere ai ragazzi i più svariati mezzi d’allenamento: ripetute lunghe (fino a 3000 metri), ripetute medie (1500, 1000 e 800 metri), ripetute brevi (600, 400, 300, 200 e 150 metri) e corse con variazioni di velocità. Lo scopo era sì quello di garantire una discreta continuità in termini di lavoro condizionale, ma anche di osservare come ciascun ragazzo reagisse ad ogni singolo mezzo.
Ciò che ho potuto osservare dall’esperienza coi Giovanissimi, un gruppo (è importante sottolinearlo) che fino a quel momento credo avesse fatto qualcosa a secco solamente per quanto concerne la rapidità nella categoria Esordienti, è stato incredibile (anche se non quanto a ciò che poi vi racconterò coi Pulcini).
⚠️ (“…No Diego, fai il serio e non scherzare”).
✅ La prima considerazione che ne ho tratto me l’ha regalata un giocatore arrivato solamente un paio di mesi prima da una piccola società. Questo ragazzo, dopo circa 20 giorni di lavoro, ad inizio settembre ha cominciato a soffrire di pubalgia, dovendo sottoporsi a diversi trattamenti che lo hanno costretto a fermarsi ai box fino a fine ottobre. Fatalità vuole che il suo pieno rientro in campo sia avvenuto proprio con l’inizio del lavoro a secco. La più scontata riflessione che si poteva fare in quel momento era che, essendo stato praticamente fermo per due mesi mentre i compagni si allenavano tre volte a settimana, il ragazzo avrebbe probabilmente vomitato l’anima.
“Signori, un aereo“!!
Mai visto nessuno scendere sotto gli 11’30” su un 3000 metri essendo fermo da un paio di mesi. Non so se mi stupì maggiormente il suo tempo o quello dei compagni, in alcuni casi superiore ai 16 minuti… (qui ci arriveremo tra poco).
Come diavolo era possibile mi chiedevo. Parlando col ragazzo mi confidò di come gli piacesse proprio correre e di come praticasse tale attività anche in modo autonomo (fuori dal campo di calcio).
✅ La seconda considerazione è per tanto collegata alla precedente: “come diavolo era possibile che ragazzi fisicamente più allenati arrivassero con oltre 4 minuti di ritardo nei confronti di un compagno che era fermo da due mesi? Era una questione puramente fisica? (questo è il nocciolo di tutto l’articolo)
✅ La terza riflessione è che uno dei due portieri riusciva puntualmente ad arrivare davanti – in qualsiasi tipo di lavoro (lungo, medio o corto) – ad un paio di compagni che, definire visibilmente in difficoltà per qualsiasi tipo di lavoro proposto, è un eufemismo. Un paio di ragazzi, infatti, oltre ad evidenti limiti tecnico-tattici, nel lavoro condizionale han sofferto ben oltre le peggiori aspettative, con uno dei due che non ha mai concluso nessun tipo di mezzo.
✅ La quarta considerazione è il numero di … (non so come chiamarli, perché francamente mi son spesso sembrati più alibi che altro) motivazioni che han fornito alcuni di loro quando incapaci di terminare il compito: mal di schiena, male alla spalla, male al polpaccio, fitte al petto e un numero esorbitante di casi di attacchi di diarrea.
✅ Nonostante ogni singolo lavoro sia stato proposto sotto forma di competizione, mediante prove a tempo che garantivano punteggi con relativi premi al termine del mese, la classifica finale di ogni singolo mezzo (lungo, medio o corto) ha visto sempre i soliti 5-6 ragazzi alternarsi nelle posizioni di testa. Ciò che invece non sono riuscito a smuovere è stato un gruppetto di 4-5 ragazzi che, pur dandomi l’impressione di poter spingere di più, han voluto quasi sempre correre in compagnia (nell’ultima parte del gruppone ovviamente…)
✅ A seconda del mezzo operativo scelto, indicavo dei tempi da rispettare per riuscire a guadagnare punteggio nella classifica finale. Durante la corsa, ogni circa 10-20″ (a seconda del tipo di lavoro), scandivo ad alta voce lo scorrere del tempo. Ciò che a volte mi ha davvero stranito è stata l’incapacità di riconoscere che a quel passo/velocità non sarebbero mai riusciti a rimanere dentro ai tempi prestabiliti. In quelle occasioni non sono riuscito ad avere chiaro se una parte del gruppo fosse pigra/svogliata o se realmente non si rendesse conto del ritmo di marcia da mantenere. Già la partenza (visibilmente lenta) nelle distanze brevi era sinonimo che non sarebbero mai riusciti a rispettare la consegna.
✅ In altri casi qualcuno ha sfruttato la prima ripetizione come una sorta di riscaldamento (peccato che ci stessimo già allenando da un’ora) o, al contrario, come un’occasione per partire a razzo (impressionando); salvo poi trascinarsi nelle successive.
✅ Una grande delusione.
Avete presente quei giocatori a cui non potete mai dire nulla sull’impegno in allenamento? Quelli che in gara non s’arrendono mai e che corrono su e giù, avanti e indietro ininterrottamente?
Un paio di loro (probabilmente anche 3-4) sono stati la vera sorpresa negativa di questo esperimento. Ragazzi che t’aspetteresti essere in testa al gruppo per tenacia e capacità condizionali ben appariscenti anche dentro al gioco, han sofferto letteralmente le pene dell’inferno, soprattutto nelle distanze medie e lunghe. Nonostante un periodo sufficientemente lungo per adattarsi (20 sedute), non c’è stato verso di smuovere “mente e cuore” di giocatori che vi assicuro nel gioco essere elementi da prendere come esempio.
✅ Una considerazione che non si può ignorare è ciò che ho ribadito più volte ad uno di questi ragazzi: “Mettiamo che tra un paio d’anni ti diano la possibilità di allenarti in prima squadra perché ti vedono tenace e predisposto dentro al gioco. Inizi a fare la preparazione. Negli adulti, in quasi tutte le realtà, una buona parte del precampionato è dedicata proprio al lavoro a secco. Se lo vivi così male c’è il rischio di venire poco considerato dall’allenatore, che magari a quel punto preferisce un giocatore con le tue stesse caratteristiche ma che non si tira indietro davanti alla FATICA MENTALE“…
??♂️ “Oh Diego, forse ho capito dove vuoi andare a parare”
Ma ci torneremo tra poco!
La storia coi Pulcini (leggere fino in fondo prima del linciaggio)
In concomitanza con l’esperienza avvenuta coi Giovanissimi, ho raccolto considerazioni ancor più interessanti con l’u11. Il tutto è partito per gioco…o per sfida direi.
L’impianto di gioco è il medesimo dei fatti precedenti, con l’unica differenza che in concomitanza con l’orario d’allenamento svolto coi Pulcini si allena anche l’atletica leggera. Un numero esorbitante di iscritti.
Un giorno, mentre attraversavo la pista per dirigermi nei campetti d’allenamento, vedo dei bambini (avranno avuto circa 8 anni) camminare mentre altri correvano. “Ehi, scusa, ma cosa state facendo?”, gli chiedo. “Dobbiamo fare 4 giri di pista (che ricordiamo siano 1600 metri) alla nostra andatura”.
Interessante, penso mentre riprendo a camminare. Appoggio a terra il materiale e mi volto nuovamente a guardarli. Qualcuno intanto riprende a correre, altri si fermano. Tuttavia sembra si divertano. Comincio a chiedermi: “ma i miei Pulcini sarebbero in grado di farli 4 giri di pista senza fermarsi”?
⚠️ (“Siamo su scherzi a parte, vero Diego”).
Al che mi viene un’idea. Al termine dell’allenamento mando un messaggio sul gruppo genitori, raccomandando di mettere in borsa anche le scarpe da tennis per il successivo allenamento e specificando che avrei voluto fare un test.
??♂️ ALT, ferma tutto. Perché prima di proseguire manca un’altra premessa. La squadra dei Pulcini che alleno (annata 2010) è probabilmente la squadra più forte che io abbia mai allenato in attività di base. Mezzi tecnici, condizionali e una comprensione del gioco decisamente profonda per la loro età. Nelle prime partite della stagione però, notai un aspetto che nel corso della precedente annata era minimale: la squadra iniziava a piacersi un po’ troppo. Nel senso che i giocatori erano consapevoli di essere forti e quando si perdeva la palla o bisognava difendere in modo aggressivo, cominciava ad intravedersi un po’ di pigrizia soprattutto in alcuni elementi. Del tipo, ripiego lentamente perché tanto il mio uomo lo fermeranno i miei compagni.
(Considerazione questa importante che tornerà successivamente nell’articolo. Ma torniamo ora al nostro racconto).
All’allenamento successivo, muniti di scarpe da tennis alla mano, i bambini si presentano in campo con la più banale delle domande: “Ma cosa ci dobbiamo fare”? “Ve lo dico a fine allenamento”, rispondo.
Anticipando l’inizio dell’allenamento di 10 minuti (togliendo di fatto il pre-allenamento), negli ultimi minuti della seduta è iniziato l’esperimento. “Bene, ora dobbiamo fare una gara di corsa. Vince chi completa per primo quattro giri di pista”.
Ciò che è emerso e ho osservato nei 10 minuti successivi meriterebbe probabilmente un libro intero ma cercherò di essere sintetico.
✅ Alle parole “Ora corriamo” (chissene frega se anche è una gara, avrà pensato qualcuno di loro), indovinate un po’… Proprio quei giocatori che stavano dando i primi segnali di pigrizia nelle gare precedenti e che sembravano poco inclini alla corsa in più, cominciano a ruotare gli occhi e la testa, sbuffando come una locomotiva. Viste le prime reazioni, sembrava quindi esserci un’interessante correlazione tra le due cose.
Solamente l’idea di dover correre aveva procurato ad alcuni di loro un malessere interno.
✅ “Attenzione bambini. Prima di iniziare vi do un paio di consigli. Correte nelle corsie più interne, ma soprattutto NON PARTITE A BOMBA. Quattro giri sono tanti. Tutto chiaro?”
“Ma certamente mister, per chi c’hai presi”.
“Bene. Pronti, partenza, via”.
Avete presente la partenza di Usain Bolt sui 200 metri? Ecco, più o meno. Alla prima curva, dopo circa 150 metri, tre bambini su dieci si fermano di colpo e iniziano a camminare…Uno di questi non riprenderà più.
Non fa questo già abbastanza riflettere? Com’è possibile che un bambino di 10 anni, dopo 150 metri di corsa, lamenti un dolore al fianco sinistro così forte (a suo dire) da non riuscire più a riprendere una corsa nemmeno lenta? Gli altri due bambini, in qualche modo trascinandosi, riescono invece a terminare (pur con moltissime difficoltà).
✅ Ciò che accadde la volta successiva mi fece altrettanto riflettere. Medesimo lavoro (4 giri di pista al termine dell’allenamento) ma questa volta con 11 bambini. Il bambino a mio avviso più pigro di tutti, assente la volta precedente, si ferma anzitempo e scoppia in lacrime (LACRIME! Per aver corso. Siamo seri?). Come se non bastasse, va in iperventilazione e in una sorta di dispnea per l’agitazione (ricordo che era già successo in un rondo, in cui ricopriva il ruolo di difensore e non riusciva a recuperare la palla). In quei casi si rincuora il bambino assicurandolo che non c’è nulla che non va e lo si aiuta a ritornare ai valori normali.
L’appunto che bisogna ricavarne da questo singolo episodio è che soprattutto i bambini (ma son convinto anche in agonistica) non conoscono il proprio corpo, con una percezione di esso e della fatica tutta da scoprire. Quante volte da bambini, giocando ore e ore con gli amici, siamo andati in forte iperventilazione? Ci siamo mai messi a piangere (sì lo so, sono tempi diversi)? Un dolore al fianco (a sinistra c’è la milza e a destra il fegato), RESPIRANDO correttamente il più delle volte passa nel giro di un paio di minuti. Il problema è che la stragrande maggioranza della popolazione ha difficoltà ad ascoltare e conoscere il proprio respiro e da qui scaturiscono altre problematiche.
✅ Dalla terza volta i bambini cominciano a vederla come una sfida (“voglio vincere io oggi) e, appena arrivati sul campo, cominciano a chiedere se anche oggi si correrà. Già dopo pochissime sedute i miglioramenti sono nitidamente visibili: sempre meno bambini hanno bisogno di fermarsi (durante i quattro giri) e riescono a gestirsi lo sforzo e l’obiettivo da raggiungere.
Sicuri che il miglioramento sia legato a fattori condizionali? Non è che si stiano abituando ad un tipo di sforzo diverso, per cui bisogna ALLENARSI MENTALMENTE?
??♂️??♂️ “Secondo indizio. Forse ho capito dove vuoi andare a parare Diego”
✅ Visto che si trattava di un gioco e di un esperimento, alla quarta volta decido di mescolare le carte: “Bambini, invece che una gara unica da 4 giri ne facciamo due da 2 giri“.
“Ok mister, è più facile. Grazie”.
Polli, vi ho fregato. Giunti al termine della prima ripetizione qualcuno capisce che è uno sforzo diverso: “Per arrivare davanti devo partire subito forte e così faccio più fatica”.
In questo modo i bambini imparano a gestire le proprie capacità e a conoscere il proprio corpo in funzione di obiettivi diversi da raggiungere.
✅ Negli allenamenti successivi, non andando mai oltre il totale di 1600 metri, decido di sperimentare altre opzioni, come ad esempio il giro secco (400m), i tre giri (1200m) o i due giri e mezzo (1000m).
Ciò che è interessante osservare è che a parte la costante dei primi due classificati (su cui tra poco spenderò alcune righe), il resto della classifica muta a seconda della distanza percorsa. In questo modo i bambini acquisiscono la capacità non solo di conoscere il proprio corpo e i propri limiti, ma anche i propri punti di forza. “Se corriamo il giro secco posso arrivare tra i primi. Come mai arrivo tra gli ultimi nella distanza più lunga?”.
✅ Attenzione. Questo generi di lavori, sicuramente lontani dalla complessità del gioco (lo sappiamo che è così), mi forniscono, allenamento dopo allenamento, altre interessanti riflessioni. Ad esempio, concentrandosi solo sulla biomeccanica della corsa, è possibile osservare come alcuni corrano male, trascinando i piedi e non piegando le ginocchia; problematiche che sono per lo più figlie della sedentarietà del XXI secolo. Oppure, tra i primi due classificati arriva sempre un giocatore che nel calcio a 7 osservo spesso in difficoltà nella scelta della giocata più funzionale. Chi mi dice che quando gli spazi si allargheranno, col passaggio in agonistica, questo giocatore non possa diventare un quinto a tutta fascia sfruttando le sue capacità condizionali? Un indizio a favore di questa tesi sono state le amichevoli di fine stagione giocate sotto età (9v9) contro squadre u12; decisamente più a suo agio rispetto al calcio a 7.
✅ E se io vi dicessi che su un 1000 metri, un bambino di 10 anni che è tutto fuorché un precoce, ha messo giù in scioltezza (“Ma non sei stanco?”, gli chiesi. “Insomma”, risposta) un 3’53”. Sì, avete capito bene: 3 minuti e 53 secondi. Manco ci credevo quando ho fermato il tempo.
Non avrei mai immagino che a quell’età ci si potesse spingere su tempi così strabilianti. Può anche essere un modo per il bambino per rendersi conto che magari non dispone di grande forza, velocità o rapidità, ma sulle lunghe distanze sono il più forte della squadra (prendere consapevolezza dei propri punti di forza).
✅ Come nel caso dei Giovanissimi, pure nei Pulcini osservo però la medesima problematica: a parte un paio di eccezioni, in cui non so spiegarmi nemmeno io come abbiano fatto ad arrivare tra i primi tre classificati, il posizionamento degli ultimi tre classificati, pur riuscendo però a completare il lavoro senza mai fermarsi, è rimasto pressoché invariato (al massimo le posizioni finali ruotavano tra loro tre). Come mai? Solo questione di capacità condizionali o dietro c’è un LIMITE MENTALE che non si riesce a superare?
??♂️??♂️??♂️ “Terzo indizio. Sono sicuro di aver capito Diego”
? Considerazioni finali
Se sei arrivato a leggere fino a questo punto spero non sia solo per la curiosità di capire dove volevo andare a parare. Spero ti siano sorti magari degli interrogativi (al massimo penserai che io sia scemo) su un’esperienza personale che va collocata in un preciso periodo storico (pandemia e restrizioni).
Ciò a cui sono giunto è ormai palese, ossia come il lavoro a secco possa servire per stimolare i giocatori dal punto di vista mentale, spingendoli a superare quei limiti che nella stragrande maggioranza dei casi esistono solo nella mente.
Lo sapete, sono un promotore del gioco e della sua complessità. Però il gioco è anche fatica, è predisposizione al lavoro. Non sempre i giocatori troveranno nella propria strada l’allenatore che mette al centro dell’allenamento sempre e comunque il pallone. Se non sarà negli Allievi o nella Juniores, giunti in prima squadra, nella stragrande maggioranza dei casi, si ritroveranno a dover convivere col lavoro a secco. Mi preoccupa l’idea che un ragazzo, magari anche bravo nel gioco, possa soffrire particolarmente questi mezzi operativi e possa mollare semplicemente per pigrizia, perché nessuno gli ha fatto scoprire negli anni precedenti che esistono modi diversi per fare fatica.
Se la fatica nel gioco può infatti essere mascherata dalla componente ludica (“mi diverto e non ci penso alla fatica”), nel lavoro a secco è in primis questione di testa (i runner anche amatoriali lo sanno bene).
Giunti a febbraio, momento in cui ho terminato il lavoro a secco coi Giovanissimi (mentre coi Pulcini mi ero limitato probabilmente alla metà delle sedute, se non ricordo male), non ho avuto nessun dubbio nel sostenere quale dei due gruppi, u15 o u11, abbia risposto in modo migliore. Una buona fetta dei più grandi ha iniziato in un modo e dopo 20 sedute ha terminato nel medesimo: chi si fermava ha continuato a fermarsi, chi arriva ultimo ha continuato ad arrivare ultimo, chi dimostrava sintomi di sofferenza non ha mai fatto reali passi in avanti, chi palesava alibi ha continuato a farlo, ecc.
Il motivo potrebbe (siamo nel campo delle ipotesi) essere legato ad una maggior predisposizione all’adattamento in favore dei più piccoli. Alla fin fine si tratta di approcciarsi con curiosità e spirito di scoperta verso mezzi operativi che potrebbero facilmente diventare delle abitudini mediante la pratica. Forse, lavorando sempre e solo con la palla fino ai 15 anni, il giocatore in qualche modo si imborghesisce, convincendosi che quello sia l’unico modo per fare fatica. Purtroppo o per fortuna, la componente ludica del gioco non per forza abbassa le prestazioni dal punto di vista condizionale, ma in qualche modo inibisce la fatica.
Altre interessanti osservazioni sono scaturite dalle gare giocate alla volta di maggio e giugno. Mentre coi Giovanissimi ho avuto la sensazione che il grande caldo abbia evidenziato una condizione fisica non ottimale, figlia di quasi 40 allenamenti persi rispetto ad una stagione regolare, i Pulcini han disputato oltre 1300′ (con anche tre gare a settimana tra maggio e giugno) giocando spesso sotto età e senza praticamente mai soffrire l’avversario. Al di la di una maggior qualità (in proporzione) in favore dei più piccoli, ciò che è stato piacevole osservare è stato il volersi mettere sempre a disposizione del compagno, rinunciando a quella sensazione di pigrizia che era suonata come un campanello d’allarme ad inizio stagione. Che sia stato merito di quelle circa 10 sedute in cui si è fatto scoprire la fatica sotto vesti differenti, questo non sarà mai dato saperlo…
Come ho scritto in precedenza, ciò che ho osservato durante questo esperimento mi ha creato moltissimi dubbi e ha minato le mie convinzioni, mettendomi ora di fronte ad un dilemma in vista della prossima stagione: me ne frego di tutto ciò che ho osservato perché è contro a ciò in cui ho sempre creduto, o cerco di trarne qualche prezioso insegnamento per la formazione dei calciatore?
A me l’idea del lavoro a secco può anche non piacere o andare contro i miei ideali, ma se servisse per davvero al giocatore per prepararlo mentalmente ad uno tipo di fatica diverso e a ricordargli che il calcio deve essere innanzitutto sudore? Sono queste le domande che ormai mi porto avanti da diversi mesi.
Se sono ancora convinto che il giocatore debba essere preparato fisicamente per sostenere un preciso modo di giocare (esempio: se voglio difendere nella mia trequarti difensiva o voglio farlo fin dentro l’area avversaria avrò bisogno di una condizione atletica differente) e che questo sia per tanto possibile allenandolo per lo sforzo specifico, mi domando però come posso ignorare ciò che ho visto tra novembre e febbraio.
Se non sono assolutamente dell’idea di cambiare i mezzi operativi che fin qui hanno fortificato le mie credenze, comincio a chiedermi se non possa essere utile, magari una volta al mese e sotto forma di competizione o sfida, dedicare 5-10′ alla scoperta della cosiddetta fatica puramente mentale, mediante appunto esercizi a secco.
L’obiettivo del lavoro a secco dovrebbe essere quello di preparare il giocatore al mezzo, piuttosto che fisicamente.
Citando Alex Zanardi:
“Se lungo la strada la fatica non ti regala anche piacere, allora vuol dire che stai seguendo più la tua ambizione che la tua vera passione. Se invece andare avanti, sudare, faticare, affrontare una salita, è una cosa che fai semplicemente perché la salita è lì, allora non c’è nessun’altra ragione.
Vuol dire che sei spinto dalla passione e ogni giornata diventerà un’occasione per raggiungere un qualche cosina, per faticare, per sudare, per portare a casa quel piacere intenso di un lavoro ben fatto”.
Lo scopo di questo articolo era quello di raccontare una storia figlia di esperienze e momenti trascorsi sul campo (in un momento storico – ricordiamolo – decisamente fuori dal comune).
Non so se condividiate o meno ciò che è stato fatto, ma mi farebbe ugualmente molto piacere ricevere dei vostri feedback (positivi o negativi che siano) per capire se altri di voi si siano ritrovati nelle medesime condizioni o a sperimentare in ugual modo.
Questa esperienza mi ha portato moltissimi dubbi e domande, che come detto hanno minato le mie convinzioni. Mettersi in discussione è di per sé già un successo.
? In questo spazio conclusivo alcuni commenti arrivati sui canali social e che voglio condividere
✅ “A me vengono in mente due cose:
1. Il concetto di gioco. Se tu guardi due o più bambini di 7-8 anni giocare assieme capisci che niente è più serio di un gioco. Possono stare lì a discutere per 20 minuti sulle regole del gioco che devono applicare e sulle conseguenze se queste non vengono rispettate. Talvolta il gioco è così serio che può saltare perfino un’amicizia (non sei più mio amico… Salvo poi fare la pace dopo poco… Se va bene). In teoria la stessa visione mentale che i bambini hanno del gioco la trasferiscono poi allo sport. Il gioco come lo sport è qualcosa che ti piace fare, che ti fa stare bene ma è anche un impegno, con le sue regole che riguardano lo sport in sé ma anche il rapporto con i compagni. Il calcio è un sport e dovrebbe essere anche un gioco. Se fosse così, ti direi, che forse il gioco a secco non serve. Questo perché fatica, concentrazione, regole, impegno e voglia di vincere sono presenti nel gioco e quindi anche nel calcio. Tuttavia da genitore che chiacchiera con altri genitori sospetto che il calcio non sia un gioco.
2. Il calcio per molti ragazzi è un divertimento. Ho sentito un sacco di genitori che sono felici che il loro figlio giochi a calcio perché così si diverte. Dicono gioco e divertimento ma in realtà sono cose ben distinte. Uno si diverte ad andare in discoteca o a chiacchierare con gli amici. Non c’è fatica, non c’è impegno, non ci sono particolari regole da seguire; guai se non ci fosse il divertimento.
Però finché genitori, ragazzi e alcuni allenatori, (quando allenano i bambini piccoli) abbinano il concetto di sport a quello di divertimento non ci si può meravigliare del fatto che un ragazzo non dia il meglio di sé.
In sintesi il lavoro a secco predispone mentalmente il ragazzo a comportarsi come fosse un gioco, per come l’ho spiegato prima. Il calcio invece è un divertimento.✅ “Il più piccolo è ancora molto curioso, e soprattutto non ha preconcetti calcistici (non scomodiamo società, cultura e genitori) e lo si vede dalle domande, dal comunicare spesso come si sente al mister. Non conosce il mondo del calcio, ma solo il gioco. Diego ha anche specificato che la proposta aveva un’imprinting competitivo. La differenza è che i piccoli l’hanno colta mentre i più grandi (non tutti) non hanno abboccato. Sanno distinguere cos’è gioco e cosa non lo è. Personalmente poi, avendo avuto la fortuna di lavorare accanto a Diego, quando anche solo per un mese ti abitua ad allenamenti col pallone, fatichi il triplo ad affrontare un lavoro prettamente a secco se sei grandicello.
✅ Articolo meraviglioso. Ho provato su me stesso i dubbi che ti sei posto a fine percorso e le conclusioni sono state le medesime (sebbene non argomentate così dettagliatamente come hai fatto te). Dobbiamo allenare anche la fatica mentale (pure la nostra è fatica mentale, soprattutto quando ci poniamo dei pregiudizi) dei giocatori perché altrimenti li priveremmo di uno strumento necessario alla loro formazione, sportiva e di vita. Grazie davvero!
✅ Ciao Diego. Una bellissima “pagina di diario” (chiamarlo articolo sarebbe riduttivo) che racconta un’idea che condivido anche io fortemente. Per rispondere al tuo dubbio che hai esposto nelle ultime righe, credo sia giusto proseguire con le proprie convinzioni sul lavoro con la palla, ma integrandolo in alcune occasioni particolari a un lavoro a secco che, come dici tu, può servire ad allenare la testa, più che il fisico! E la testa, come tutti sappiamo, è fondamentale
✅ Complimenti Diego. Interessante e istruttivo, soprattutto dal punto di vista dell’approccio alla disciplina; si rischia sempre di inquadrarsi in visioni ferree e chiuse (per quanto valide e sostenute da dati scientifici) e non si pensa a nient’altro che a confermare le proprie convinzioni perdendo la capacità di guardarsi intorno e scoprire cose nuove o, perché no, ritornare su vecchi argomenti. Sono convinto anch’io che il lavoro a secco sia importante per i motivi che dici, specialmente nelle prime fasi dell’apprendimento del gioco del calcio, ma in generale dell’avviamento allo sport (e alla vita). Ti dirò, io sono ancora molto in dubbio sulla presunta inefficacia anche dell’approccio analitico…ma questo è un altro discorso. Di una cosa però sono sicuro: la curiosità e l’apertura mentale di affrontare il calcio (e la vita) in modo sempre aperto e pronto ai cambiamenti (anche tornando indietro) è una ricchezza da non accantonare mai…anche di fronte alle neuroscienze!✅ Ottimo lavoro Diego, frutto della tua insaziabile voglia di crescere e migliorarti, e di una sensibilità e capacità di vedere/sentire/ascoltare che non appartiene a molti. Non si butta niente Amico mio, dal lavoro con palla a quello a secco, dal situazionale all’analitico puro; in base al numero di allenamenti, agli spazi, all’età dei ragazzi, al loro livello tecnico tattico e fisico. Chi opera con i giovani è formatore, e non deve tralasciare nulla, ricordandosi che questi ragazzi saranno il futuro, qualsiasi cosa faranno nella vita dobbiamo lasciar loro qualcosa che li aiuti ad essere Uomini nel senso più alto del termine, ed ogni mezzo o parola servono. Non possiamo per ideologia scartare a priori, sta alla sensibilità dell’insegnante capire e scegliere in base al contesto….ma qui si apre un capitolo per me chiave: il calcio è sport popolare, praticato dalla maggior parte dei bambini e ultimamente in forte espansione anche con le bambine, e tanti sono gli allenatori che si cimentano sui vari campi in giro per il Paese. A mio avviso pochi hanno competenze metodologiche ma soprattutto sensibilità umana per farlo, e quindi quei bimbi/ragazzi che troveranno sul loro cammino formatori come te sono dei fortunati/privilegiati. Con stima!✅ La saggezza nasce dall’esperienza e ti porta a non negare il vecchio e a non demonizzare il nuovo, ma ad utilizzare entrambi in una visione di integrazione, complementarità e completezza. E così scopriamo che allenare oltre che scienza è saggezza ed arte.
Foto: https://www.correrenaturale.com
Commenti
Ciao Diego, complimenti per l’articolo e soprattutto per aver avuto il coraggio di mettere in discussione le tue idee.
Faccio solo una considerazione da preparatore atletico di adulti e di allenatore di scuola calcio: il lavoro “a secco” non è solo quello fatto di corsa lineare; le abilità motorie allenabili senza palla vanno dalla coordinazione, alla potenza aerobica, alle qualità neuromuscolari ed al perfezionamento degli schemi motori di base, a tutte le età.
In ogni modo, “far correre” anche i ragazzi ha il gran pregio di abituarli ad uscire dalla loro “zona di confort”, stimolo fondamentale per riuscire ad ottenere il meglio da loro stessi.
Ancora complimenti per il tuo articolo
Ciao Diego, intanto grazie, l’articolo, come sempre è molto interessante. Questo è sempre uno dei miei dilemmi. Il lavoro a secco è utile? Ogni volta, a seconda della categoria che alleno, mi pongo la domanda.
Da 3 anni alleno una squadra femminile under 15. Si gioca a 9. Le abilità tecniche a quest’età nel femminile sono comunque limitate. I gruppi sono spesso disomogenei per capacità e anche per età quindi i miei dubbi si moltiplicano sempre.
Spesso però, vista la difficoltà che hanno nei lavori con palla, per migliorare la loro condizione fisica, ho dovuto, mio malgrado, lavorare a secco, sopratutto con lavori intermittenti.
Mi sono accorta che chi in campo rende meglio per capacità tende comunque a denigrare il lavoro fisico…spesso non lo capiscono, abituate ad usare sempre il pallone.
Quest’anno avrò un’under 17 che giocherà a 11 e qui dovrò lavorarci ancora di più dal momento che gli spazi aumentano…far comprendere il senso della fatica a mio parere è molto difficile.
Ancora complimenti per gli spunti di riflessione e per il lavoro che fai.