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L’intervista: Matteo Boccato, un fratello minore!

25 Aprile 2021

L’intervista: Matteo Boccato, un fratello minore!

Considerato che le recensioni che mi arrivano sono piuttosto positive, ho deciso di continuare questa rubrica nata un po’ per gioco; mi dicono piaccia perché è leggera e perché semplicemente racconta storie e aneddoti in cui tanti di voi possono rivedersi.

Nel terzo appuntamento ho deciso di mettere nero su bianco un po’ la mia storia, perché Matteo Boccato, data di nascita 21/12/1995 (non a caso è uno dei pochissimi compleanni che ricordo anche a distanza di anni), ha scritto insieme a me i miei primi anni da allenatore.

Io e Matteo ci siamo conosciuti nell’ormai lontano 2005: io appena ventiduenne e lui bambino di dieci anni, al suo secondo anno nella categoria Pulcini. La cosa buffa e incredibile della nostra storia è che siamo per davvero cresciuti assieme, perché, anche se so che può sembrare assurdo e inverosimile da credere, sono state ben otto (OTTO) le stagioni consecutive trascorse l’uno al fianco dell’altro: dai Pulcini (u11) al primo anno con la Juniores (u18). Lo so, si potrebbe disquisire all’infinito se sia stato giusto o meno; quello che posso dire è che la realtà in cui si sono svolte le nostre vicende è la Polisportiva S. Pio X di Rovigo, una società a cui entrambi siamo molto legati ma che per molti versi rappresenta un contesto quasi parrocchiale.

Matteo mi ha incrociato (fortunatamente o sfortunatamente) sulla sua strada al mio esordio in panchina e forse è questo uno dei rammarichi più grandi che ho: tornassi indietro, con le competenze e l’esperienza che ho maturato in questi anni, cambierei davvero tante cose; credo tuttavia che in tanti di noi allenatori lo pensino guardandosi alle spalle.

Quel lungo percorso con l’annata 1995 (durato 8 anni come detto) la compirono per intero solamente tre giocatori; tra chi si aggiungeva, chi mollava e chi migrava in realtà più blasonate, il nostro fu sempre un porto di mare, con continui mutamenti stagione dopo stagione. Uno di quei tre giocatori fu proprio Matteo.

Io e lui abbiamo sempre avuto un rapporto un po’ speciale, difficile da descrivere in un singolo articolo. Matteo, oltre ad essere sempre stato il più talentuoso della squadra, ero un giocatore volenteroso, di quelli che vengono all’allenamento non per riempire il tempo ma perché hanno voglia di migliorarsi e applicarsi (il che per il futuro farà tutta la differenza di questo mondo), pure in un contesto in cui, quando ti guardi attorno, lo stimolo di mandare tutto a quel paese ti viene più e più volte all’interno anche dello stesso allenamento.

Come se non bastasse, mamma Elena (sua mamma) mi aveva in qualche modo adottato come figlio maggiore e non di rado mi capitava di prenderlo o riportarlo a casa da allenamenti e partite, cementando ancor di più il nostro rapporto, fondato su stima e fiducia reciproca.

Matteo, per diversi aspetti, è stato in quegli anni una sorta di fratello minore; un ragazzo che nel suo percorso di settore giovanile ha rinunciato a palcoscenici all’apparenza migliori per il rapporto quasi morboso che si era instaurato fra noi.

Lo scopo di questa intervista, oltre che utile a noi due per fare un tuffo nel passato, è capire come, una volta divenuto uomo, sia riuscito ugualmente ad approdare in una categoria che tanti dei suoi coetanei dell’epoca non hanno neppure sfiorato, pur prendendoci a pesci in faccia una settimana sì e una no.

D: Ciao Matteo. Raccontaci innanzitutto il tuo percorso calcistico.

“Ho cominciato a giocare a calcio all’età di 6 anni presso la Scuola Calcio Duomo, in cui per due stagioni giocavo come portiere. Sono poi passato alla Polisportiva S. Pio X (Rovigo), dove fin da subito ho cominciato a giocare “lontano dalla nostra porta” e dove ho trascorso tutto il settore giovanile. A 16-17 anni sono arrivate le prime apparizioni in panchina nella nostra prima squadra (seconda categoria) e poco più tardi il mio esordio in Coppa Veneto realizzando una doppietta. Dopo un paio di stagioni mi sono trasferito alla Polisportiva Granzette dove siamo riusciti a vincere i play-off e ad approdare in prima categoria, dove militiamo tutt’ora”.

D: Che sensazioni vivi a militare in una prima categoria pur avendo trascorso tutto il tuo settore giovanile in una società che potremmo quasi definire parrocchiale?

“Domanda molto difficile, a cui ho pensato anche non molto tempo fa. Mi ritrovo a giocare con ragazzi che provengono da settori giovanili molto più blasonati, con campionati Élite e Nazionali alle loro spalle; qualcuno ha addirittura trascorsi in serie D e Lega Pro. Onestamente non riesco a capire se vederlo come un mio traguardo personale o una loro sconfitta. Sono orgoglioso tuttavia di dove sono arrivato e non nego che attraverso il lavoro quotidiano spero di riuscire a togliermi ancora altre soddisfazioni”.

D: Che ricordi hai del tuo settore giovanile? Hai qualche rimpianto?

“Del mio settore giovanile ho buoni ricordi per quanto riguarda la compagnia e e l’allenatore. Mi piaceva allenarmi e provare le esercitazioni che ci proponevi. Sai bene che sono sempre rimasto lì perché c’eri te, nonostante avessi avuto qualche proposta che mi avrebbe permesso di mettermi alla prova con campionati maggiormente competitivi. Di quegli anni ricordo di aver mangiato tanta ****, perché quando ti alleni bene ma una fetta della squadra non fa altrettanto, la cosa ti fa incazzare; così come tutte quelle volte che ci siamo allenati a numeri ridotti perché a loro dire i compagni dovevano studiare.

Tra i rimpianti ho sicuramente i risultati. Seppur contassero relativamente poco e nonostante provassimo sempre a giocare a calcio rispetto a tante altre squadre, vincere poco e uscire sconfitto, mi faceva innervosire moltissimo. Arrivavo a casa incazzato e a volte andare a calcio, anziché essere un modo per sfogarmi, rischiava di diventare un modo per incazzarmi ancora di più. Tornassi indietro ora, forse qualche richiesta (di altre società) l’avrei accettata”.

Matteo con la maglia del Calcio Padova durante un camp

D: Matteo, come non parlare dei tuoi numerosi infortuni. Avevi un fisico molto esile e fin dal primo anno Allievi cominciasti a soffrire di pubalgia, che te la portasti dietro per diverse stagioni. Come si superano tante disavventure?

“La pubalgia ha cominciato a tormentarmi dai 15 anni. Grazie al supporto e alla pazienza dei miei genitori penso di essermi rivolto agli specialisti di mezzo Veneto, ma alla fine non riuscivo mai a sentirmi meglio. Oltre al dispiacere di far spendere soldi a mamma e papà, non vedevo mai la fine. La pubalgia mi provocava davvero molti problemi, tanto che qualsiasi gesto tecnico che eseguivo col destro mi causava dolore. In quel periodo mi imponevo di usare molto di più il sinistro e questo mi ha aiutato a migliorare moltissimo il mio piede debole.

Alla fine mi sono rivolto al dottor Paolo Raimondi di Padova (diversi giocatori della serie A si rivolgono a lui), al quale sarò sempre riconoscente per avermi rimesso in campo senza più dolore.

Come se non bastasse ho sofferto di mal di schiena, distorsioni alle caviglie e stiramenti vari; aggiungici che ogni volta che prendevo un colpo il mio corpo lo subiva parecchio. Solo oggi, grazie ai miei attuali studi in Scienze Motorie, capisco quanta prevenzione avrei potuto fare, sia in termini di alimentazione che di posture.

Gli infortuni si superano con la passione per lo sport, l’amore per il gioco del calcio. Non c’era nient’altro che mi facesse stare bene come un campo di calcio“.

D: Da studente di Scienze Motorie e in veste di collaboratore, so che hai iniziato da qualche mese ad avvicinarti alle categorie più piccole della Scuola Calcio. Come ti vedi in questo ruolo e quali valori cerchi di trasmettere ai bambini?

“Onestamente, questa pandemia non mi sta dando modo di identificarmi come allenatore. Per via delle restrizioni e dell’impossibilità ad utilizzare molte esercitazioni, non riesco ancora ad inquadrarmi in questo ruolo. Una cosa certa è che un bravo giocatore non per forza lo sarà altrettanto come allenatore; sono due mondi completamente diversi.

Sicuramente ci tengo alla serietà e all’impegno che gli allievi devono mettere durante la seduta. Provo a spronare i giocatori a dare il meglio di sé, incoraggiandoli e motivandoli, nonostante i vari limiti che ognuno di loro ha.

I valori a cui tengo maggiormente sono il rispetto (dei compagni, della struttura, del materiale, ecc.). Non deve essere scontato ciò che li circonda. L’impegno, come detto, è importantissimo: nella vita nulla gli verrà regalato senza impegno.

Infine provo a trasmettergli la mia passione e l’amore per lo sport”.

D: Tra noi c’è sempre stato un rapporto che potrei definire “speciale”. Nonostante i tanti anni assieme, non ricordo una nostra litigata o un battibecco. C’era confidenza ma al tempo stesso rispetto. Che ricordi hai di quegli anni? 

“Litigate e discussioni accese non ne ricordo, anche se talvolta si è provato ad andare oltre. Una volta ricordo che con un compagno ti abbiamo scritto prendendoci un po’ troppa confidenza e un altra volta ricordo di essere venuto alle mani con un compagno. Le conseguenze delle mie azioni non si sono però mai fatte attendere e quando c’è stato bisogno di farmi capire che stavo sbagliando, l’hai sempre fatto.

Il nostro rapporto era speciale e francamente percepivo di essere tra le tue grazie (diciamo così), ma credo onestamente per meriti. Questa cosa mi rendeva orgoglioso. Sapevo che avevo la responsabilità di dimostrare io per primo il mio valore. In quegli anni allenavi anche la prima squadra e mi faceva piacere che mi portassi ad allenarmi coi più grandi di tanto in tanto, mi responsabilizzava. C’è sempre stato rispetto e riassumere 8 anni del nostro rapporto in poche righe è un po’ difficile”.

D: Tanti dei tuoi ex compagni hanno smesso di giocare mentre pochi altri lo fanno ancora nella squadra di quartiere in cui sono cresciuti. Cosa ti ha spinto in prima categoria?  

“Probabilmente, rispetto ai miei compagni, avevo molta più passione per giocare a calcio. Mi piaceva andare ad allenarmi, far le cose seriamente. Si stava tra amici e si scherzava, ma quando c’era da lavorare non mi tiravo di certo indietro.

Quando ho visto che a S. Pio X le cose non potevano cambiare mentre i miei compagni non la pensavano come me, ho scelto di cambiare; non era più la mia visione. A quel punto ho deciso di accettare l’offerta di mister Zerbinati che mi aveva già allenato nella Juniores e che nel frattempo si era trasferito nella prima squadra del Granzette.

Quando ho cominciato ad allenarmi con compagni molto più forti, c’ho messo un po’ ad ingranare ma allo stesso tempo ero entusiasta; mi sentivo responsabilizzato. Avere il tuo posto in spogliatoio, il poter lasciare il proprio materiale al suo interno, era come sentirsi a casa e guai a chi me lo toccava. Probabilmente, per un ragazzo che proviene da settori giovanili importanti, sono cose scontate e banali, ma per me, che arrivo da un piccolo quartiere, era una cosa che mi gasava e mi faceva sentire importante.

Il fatto che i miei compagni fossero affamati di vincere e la sconfitta fosse vissuta male dallo spogliatoio, mi ha permesso di migliorarmi a livello mentale, grazie anche ai consigli dei giocatori più anziani”.

D: La tua è probabilmente l’ultima generazione ad essere cresciuta col gioco di strada. Che ricordi hai della tua gioventù fuori dal campo di calcio?

“Della mia infanzia ricordo le tante ore passate a giocare a calcio, con mia sorella che si prestava a scaldarsi le mani mentre le calciavo in porta a casa della nonna.  Da mia zia, con l’amico Max Barros (Max è stato un altro bravissimo giocatore che ho avuto la fortuna di allenare in quegli anni. Più grande di Matteo di un anno, è poi riuscito a disputare un campionato Giovanissimi Nazionali con la maglia del Calcio Rovigo), facevamo a gara di punizioni e rigori; giocavamo con qualsiasi cosa rotolasse, dalle palline di tennis ai calzini arrotolati.

Ricordo addirittura un capodanno con gli amici passato a giocare a calcio dalle 22 alle 2 di mattina. Noi siamo quella generazione che quando oggi si viaggia in macchina in compagnia, c’è sempre qualcuno di noi che ha un pallone.

A me comunque lo sport in generale è sempre piaciuto. C’è stato un anno dove, se ricordi, praticavo sia calcio che rugby. Un pallone me lo portavo sempre e ogni momento era valido per giocare. C’erano giorni che andavo al parco o all’oratorio e trovavo ragazzi più grandi di me con cui giocare. D’estate si giocava tutto il giorno, dalla mattina alla sera.

Fino a 14-15 anni vedevo solamente il calcio, le ragazze non sapevo nemmeno cosa fossero. Oggi invece, fin da piccoli, “grazie” a YouTube, Instagram e social vari, hanno già le idee più chiare. C’è stato un episodio che mi ha fatto molto riflettere in tal senso. Allenando i più piccoli, un bambino di 8 anni, dovendo scegliere il nome della propria squadra, se n’é uscito con “Le cannette“, indicandomi proprio il gesto del fumare. Le nuove generazioni crescono troppo in fretta ed è difficile trovare un bambino ingenuo.

Oggi parlano solamente di videogiochi anche durante l’allenamento e questo lo trovo molto triste. Non c’è da stupirsi se un tempo, nella stessa nazionale, avevamo campioni come Totti, Del Piero e Pirlo”.

Nel ringraziare Matteo per la sua disponibilità, voglio concludere questa terza intervista con alcune mie consuete considerazioni personali.

Bok, come l’abbiamo sempre tutti battezzato, ricorda in qualche modo la storia di Alex Ostojic (raccontata nel precedente episodio). Come Alex, si ritrova oggi a giocare con compagni che provengono da settori giovanili molto più blasonati e con alle spalle campionati a livello nazionale. Com’è possibile che un ragazzo uscito dalla parrocchia militi insieme a giocatori che avrebbero dovuto fare tutt’altra carriera? Com’è possibile che Ostojic sia finito a giocare con ragazzi che hanno indossato le maglie dei settori giovanili più importanti d’Italia e in alcuni casi anche della nazionale? L’idea di questa rubrica nasce proprio dal voler raccontare queste tre storie, a mio modo di vedere collegate tra loro.

Il settore giovanile non può a mio avviso essere un percorso di rose e fiori, dove allenatore e società ti mettono davanti alle sole cose belle che troverai sul tuo cammino, perché, come ha raccontato Scapin, le difficoltà prima o poi arriveranno e la chiave è farsi trovare pronti.

Il fatto che Matteo sia cresciuto in un settore giovanile dove tante volte ci si allenava nemmeno in doppia cifra, coi palloni con le pezze, dove talvolta dovevo passare con l’auto alle 8 di domenica mattina per le case popolari del quartiere perché alcuni si erano addormentati, l’ha sicuramente forgiato alle difficoltà. I tanti infortuni che ha avuto, se da un lato gli hanno fatto perdere numerosi allenamenti e opportunità di crescita, dall’altro ne hanno fortificato la resilienza, portandolo ad apprezzare quei traguardi che oggi ha raggiunto e che magari altri non sanno assaporare.

Nel lungo calvario della pubalgia (ricordo partite in cui non capivo se era più la voglia di rimanere in campo o il dolore che provava; fino a quando una volta lo vidi uscire in lacrime) ha avuto la forza di resistere (quando altri hanno mollato per molto meno) e di cogliere il momento come un’opportunità per migliorare il proprio piede debole (che per la cronaca era già meno “debole” del piede forte di altri compagni).

Nell’ascoltare le parole di Matteo sono felice di ritrovare valori che ho sempre provato a trasmettere negli ultimi sedici anni in panchina, quali l’amore e la passione per questo sport. Ciò che lui oggi prova a fare coi bambini è ciò in cui io stesso credo: etica del lavoro, impegno, serietà e rispetto.

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