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Belle e dannate

10 Novembre 2023

Le belle e dannate nel calcio sono quelle squadre che lasciano il segno sul campo ma non sui palmares. Formazioni che magari incantano tutti per il gioco spettacolare o innovativo, per il numero dei fuoriclasse schierati o per avere una resa sorprendente, ma senza ottenere il risultato meritato, arrivando comunque molto vicine. Passano alla storia senza vincere, perché *vincere non è l’unica cosa che conta.

*Pur essendo un grande uomo di calcio, il ventennio da presidente di Boniperti dovrebbe essere oggetto di una accurata analisi ma quella frase fu tuttavia infelice, comunque la si giri.

🇭🇺 L’Ungheria del 1954 con il suo sistema modificato che non dà punti di riferimento in attacco, facendo arretrare il centravanti e avanzare le due mezzali è uno degli esempi più famosi. Incanta tutti, ma si schianta in finale contro la rimonta della Germania Ovest. La stessa Germania Ovest che vent’anni dopo esatti farà svanire, sempre in rimonta e sempre in finale, i sogni di gloria dell’Olanda totale e meccanica di Rinus Michels, con la sua difesa a zona e il suo pressing spaventoso. Ma la bella e dannata per eccellenza è il Brasile all star dei campionati del mondo 1982: mediana composta da Junior, Falcao, Socrates, Zico e Cerezo, di fronte ai quali ci si dimentica anche i nomi di una grande coppia d’attacco (o di una coppia di centrali difensivi un po’ più infelice), e ci si dimentica perfino che il tutto non bastò nemmeno per arrivare in semifinale.

Siccome però il mio è un calcio di provincia, anzi, il calcio per me è provincia, le belle e dannate che vorrei rievocare brevemente in questo articolo sono tre provinciali che hanno lasciato il segno nel tempo non solo senza vincere, ma senza nemmeno salvarsi.

🐬 PESCARA 1988-89

La stagione 1988-89, la prima del ritorno a 18 squadre della A, rappresentò un unicum per il Pescara, perché fu la prima volta in cui giocò nella massima serie per due anni consecutivi. Eppure, nell’estate del 1986, il Pescara era una squadra di serie C, senza proprietà e senza giocatori, che si affida all’unico allenatore che accettò l’incarico con la promessa di non protestare. Si chiama Giovanni Galeone, è napoletano trapiantato in Friuli e passerà alla storia come uno dei primi zonisti del calcio nostrano.

In realtà Galeone aveva intenzione di schierare la difesa a uomo, come fece nella Spal nei tre anni precedenti; sarà il suo capitano Gasperini (lo stesso che oggi da allenatore dell’Atalanta è tornato per primo alla marcatura a uomo) a suggerire al mister di continuare con la zona per non buttare via il lavoro del suo predecessore Catuzzi. Galeone gli darà retta, tutto sommato non aveva difensori brillanti nell’uno contro uno e non era di certo un sergente di ferro. Un giornalista lo descriverà in questo modo: “Ha l’aria di uno che è passato di lì per caso. Ha un aspetto leggermente trasandato, che si deteriora ulteriormente nel corso dei novanta minuti”. Il suo Pescara spiantato venne ripescato in serie B per il fallimento del Palermo e quella serie B la vinse giocando un calcio corto, alto e verticale, con il modulo 4-3-3.

Difesa a zona, baricentro alto e 4-3-3. Galeone sembrava uno Zeman ante litteram. I due si contenderanno per anni la paternità di certe soluzioni, ma erano esattamente l’opposto, sia in campo che fuori. Il Pescara rimaneva alto ma non pressava alto, poiché Galeone temeva che se i difensori avversari erano più bravi, i suoi si stancassero e ballassero troppo; il Pescara gioca a zona solo perché così giocava in precedenza. Verticalizza ma senza schemi a memoria, perché il suo allenatore predilige sempre la tecnica. In serie A il 4-3-3 metterà tutti in difficoltà perché è un modulo di partenza simmetrico, che porta movimenti simmetrici. Oggi lo utilizzano in tanti, mentre nel 1987 in Italia si giocava in modo asimmetrico: a destra il terzino marca fisso e non si stacca, mentre l’ala va sul fondo e crossa; a sinistra invece il terzino si sovrappone e va sul fondo e l’ala si accentra a sostegno del centravanti. Non a caso, al termine della sua carriera immensa, il grande Paolo Maldini indicherà proprio in Rocco Pagano del Pescara l’ala destra che lo mise maggiormente in difficoltà.

Con la serie A, nel 1987-88 arriva a Pescara Brasileo Junior, che di una bella e dannata già ne fece parte, essendo stato il terzino sinistro del Brasile all star del 1982. Dopo il mondiale arriva a Torino, ma risente molto dei metodi di Gigi Radice che gli faceva fare il terzino sinistro marcatore. Dopo tre anni approda a Pescara dietro consiglio del suo compagno di nazionale Zico. Zico, ad Udine, gioca con i giovani che hanno avuto Galeone come allenatore della primavera e incoraggia Junior promettendogli che si divertirà. E così fu. Gasperini gli cede la fascia da capitano e Galeone lo mette al centro della mediana, in modo che, essendo il più forte tecnicamente, tocchi più palloni di tutti (lo spostamento in regia del più forte verrà replicato da Galeone in futuro sia con Desideri, che con Candela che con Max Allegri; quest’ultimo deve proprio a Galeone la sua carriera da giocatore professionista).

Dopo la storica salvezza del 1987-88, il campionato successivo si aprì con i migliori auspici. C’è un nuovo presidente, già navigato nello sport, che si porta dietro un nuovo sponsor. Arrivano altri due brasiliani, Tita ed Edmar (ma solo il primo avrà una resa all’altezza) e il Pescara ricomincia da dove aveva smesso, linee altissime e fantasia, in campo come fuori. Qualche brutto rovescio, certo, ma in Italia ci sono Gullit e Van Basten, Maradona e Careca, ed è normale rischiare di essere presi a pallonate. L’obiettivo è sempre la salvezza, ma nessuno dubita che arrivi. Il girone di andata si conclude in tutta tranquillità e quello di ritorno si apre ancora meglio, con la vittoria per 3 a 1 contro la Roma di Liedholm al Flaminio (l’Olimpico era in ristrutturazione per Italia ’90). Poi il campionato del Pescara termina. Pareggia quando deve vincere e perde quando deve pareggiare. Tutto sembra sempre sotto controllo ma non lo è. Quella vittoria che servirebbe non arriva mai, nemmeno negli scontri diretti, che sono quelli in cui appunto gli avversari ti superano. Una classifica cortissima (come di norma al tempo dei 2 punti) con sette squadre in due punti per gli ultimi due biglietti per la serie B. Prima dello scontro decisivo un attacco di colite schianta mezza squadra. “E’ come se tre anni di bagordi avessero presentato il conto tutto insieme” ironizza la stampa, alludendo ad un certo libertinaggio nello stile della squadra (più mitizzato che effettivo), e la retrocessione è servita.

🔴⚫️ FOGGIA 1994-95

Il campionato di serie A 1994-95, il primo con la vittoria a 3 punti, è forse il più difficile che ci sia mai stato in Italia. Lo vince la prima Juve dell’era Lippi, che nei successivi cinque anni sarà ai vertici del calcio mondiale. In campionato vi sono almeno altre quattro squadre altrettanto forti: il Milan di Capello fresco campione d’Italia, d’Europa e del mondo, che arriverà di nuovo in finale di Champions, la Roma di Mazzone con la nuova coppia d’attacco Balbo e Fonseca che sarà sola in testa dopo le prime sei giornate, il Parma di Scala che contenderà fino all’ultimo alla Juve scudetto, coppa Italia e coppa Uefa, e la prima Lazio di Zeman, che arriverà seconda a dispetto di un organico un po’ leggero.

Zeman arriva da Foggia, dove in cinque anni la squadra passa dalla serie B a incantare tutti. Dopo il primo anno di serie A, il presidente Casillo vende a peso d’oro tutti i giocatori per un totale di 56 miliardi, e il DS Pavone, il vero artefice di Zemanlandia, con soli 18 miliardi, pesca in serie C giocatori all’altezza per salvarsi altre due volte. Ma il giocattolo si rompe, anzi, viene rotto. Casillo è arrestato per associazione mafiosa e tutte le sue immense proprietà vengono macinate dai curatori fallimentari. Nelle casse del Foggia vengono trovati i 38 miliardi delle cessioni dei due anni precedenti: non certo la mossa di un mafioso, che quei soldi in due anni li avrebbe riciclati e fatti girare; ci vorranno oltre dieci anni prima che la verità venga a galla. Nel frattempo c’è il campionato, con qualche giocatore che cerca di seguire il vecchio presidente a Salerno (il gruppo Casillo nel frattempo aveva rilevato la Salernitana) e il nuovo allenatore da scegliere. Per la verità il nuovo allenatore lo hanno cresciuto in casa, ma Delio Rossi (foggiano di adozione ed ex capitano, oltre che allenatore della primavera fortemente voluto da Pavone) seguirà Casillo a Salerno e quindi occorre un nuovo nome per il dopo Zeman, a Foggia!

Sulla carta il nome di Enrico Catuzzi sembra a tutti un ripiego: mai allenato in serie A, venuto fuori con il Bari dei baresi con i quali ha sfiorato la promozione e inventore (lui sì) della zona in Italia. Quasi non parla, si mette al lavoro, e non è così sprovveduto da buttare via quanto fatto del suo predecessore; che oltre tutto conosce molto bene da venti anni. Ne esce un Foggia che gioca bene, vince ed entusiasma. Rimangono la zona e i reparti molto vicini. Del tridente restano i tagli, ma gli attaccanti di ruolo diventano due. In fase di non possesso la pressione esasperata degli anni precedenti lascia il posto alla superiorità numerica e il tutto funziona. Allo Zaccheria si schianta persino la Juve di Lippi che prende un secco 2 a 0. Sotto Natale Zeman ammette che il Foggia di Catuzzi è più bello del suo. Anche in questo caso però il girone di andata, concluso quasi in zona Uefa, lascia il posto ad un ritorno nel quale nessuno si aspetta che il Foggia possa retrocedere, ma finisce proprio così. Crisi non di gioco, ma di risultati e di concentrazione. A retrocessione non ancora avvenuta si fanno già le voci di una retrocessione pilotata per poi ricomprare il Foggia in B quasi gratis, ma Catuzzi è il primo a non voler sentir parlare di borse a perdere. Si scriverà che qualche giocatore già venduto a squadre blasonate per l’anno successivo non si sia più impegnato come nel girone di andata, ma anche questa è una voce che lascia il tempo che trova e non risponde agli interrogativi che i foggiani ancora adesso si pongono su quel maledetto girone di ritorno, l’ultimo che li abbia visti in serie A.

🟡🔵 VERONA 2001-02

L’ultima bella e dannata di questo articolo è il Verona del 2001-02. Quel 5 maggio, in cui muore Cestmir Vycpalek, l’Inter perde uno scudetto vinto, la Juve vince uno scudetto perso e la Roma comprende che avrebbe potuto bissare lo scudetto, se solo ci avesse provato. Ad un certo punto gli italiani prendono anche coscienza del fatto che il Verona retrocede in serie B; quest’ultimo fatto sembra addirittura più assurdo dello scudetto vinto dalla Juve.

Anche se quella è la stagione del Chievo, che approda in serie A e incanta tutti con il suo calcio sacchiano (che in Italia ogni dieci anni viene riscoperto, succederà poi con Sarri la stessa cosa), il Verona è autore di un girone di andata memorabile, che chiude al settimo posto facendo vedere un gioco che in futuro molti allenatori riveleranno di avere preso a modello (CT della Nazionale compreso).

Alla guida di quella squadra c’è Alberto Malesani, profeta in patria, che peraltro è stato determinante negli anni passati per la costruzione dell’ossatura proprio del Chievo che verrà sconfitto nel derby di andata con memorabili festeggiamenti proprio di Malesani sotto la Sud (e a chi gli farà notare i propri trascorsi risponderà schiettamente di non essere di plastica). Malesani trasporta al Bentegodi quel 3-4-3 non troppo corto che aveva fatto segnare tanto Batistuta e vincere tanto il Parma. Qui trova degli interpreti eccezionali, perché la fortuna di quel Verona risiede proprio negli interpreti, tecnicamente quadrati ruolo per ruolo. Cassetti, Cannavaro Jr e Zanchi in difesa, Oddo e Gonella sulle fasce, Colucci e Italiano in mediana, davanti il tridente Camoranesi, Fick e Mutu (con Gilardino e Montano come riserve).

Forse il problema di quel Verona è l’aver fatto tutto troppo bene troppo presto. Alla fine dell’andata le grandi mettono sotto contratto i cavalli di razza e il Milan opziona Malesani per sostituire Zaccheroni per l’anno successivo…sempre a patto che il Verona faccia un girone di ritorno altrettanto riuscito. Ma così non sarà. Il Verona sprofonda. Questa volta gli ingredienti ci sono tutti e vengono confermati: i big già in partenza rallentano di molto. La concentrazione viene meno, ma soprattutto il ritardo, già consolidato, negli stipendi aumenta (iniziano i primi problemi del Gruppo Parmalat) e tanto basta per innescare una crisi che rompe uno dei giocattoli più belli degli ultimi trent’anni. Almeno in provincia.

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