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Lineamenti sullo sviluppo del “gioco all’italiana”: il catenaccio

19 Gennaio 2024

   “Quello è Alfredo Di Stefano, lo devi seguire perfino negli spogliatoi!

Helenio Herrera

Così disse Helenio Herrera a Carlo Tagnin prima della finale di Coppa dei Campioni del 1964; e il giocatore seguirà l’istruzione alla lettera.

In questa citazione c’è un po’ tutto sul catenaccio, inteso come organizzazione di gioco che parte dalla difesa come rottura e decostruzione del gioco avversario per poi rilanciare la propria fase di attacco il più velocemente possibile. Due sono gli elementi essenziali: l’indicazione di marcatura a uomo a tutto campo e l’impronta con un mediano di rottura anziché con un difensore di ruolo. Nel catenaccio si marca tutti. Si marca a uomo e si marca a tutto campo; l’avversario assegnato va controllato anche quando la sua squadra non è in possesso di palla.

Il catenaccio e la marcatura a uomo sono due concetti di grande successo che nel tempo sfondano i confini del calcio e dello sport in generale. Essi divengono dei modi di dire, ma anche dei concetti sociologici (il premio Strega Antonio Pennacchi lo intendeva come la tendenza di un partito politico a seguire una strategia a volte opposta ai propri programmi e quindi in contrasto con le idee dei propri attivisti, pur di andare contro a quello che fanno gli avversari).

Prima della storia, che è abbastanza lineare, vediamo la teoria. Il catenaccio parte dalla ricerca di una solidità difensiva che si cerca di ottenere ponendo dietro la linea dei marcatori (che seguono a uomo gli attaccanti avversari) un “battitore libero” esente da marcature fisse, il quale interviene quando un attaccante scappa al proprio marcatore. Lo schema più semplice è quello di una difesa a quattro con uno stopper sul centravanti avversario, un terzino destro sull’ala sinistra e un terzino sinistro sull’ala destra. E il libero dietro.

La prima variante è quella di una difesa a cinque con quattro marcatori e un libero (come il famoso Bari di Fascetti), mentre, altre soluzioni, prevedono un impiego più attivo del libero che può ad esempio accorciare subito sul terzino in difficoltà (e a quel punto venire rimpiazzato in posizione arretrata dal terzino della fascia opposta a quella da cui si attacca, che a sua volta viene rimpiazzato dall’ala che scala; la “diagonale” insomma).

Questa organizzazione difensiva prevede che le marcature siano sempre abbastanza strette e a tutto campo, con il difensore (o il marcatore in genere) che ha il seguente ordine delle priorità visive: per prima cosa deve guardare l’uomo, per seconda la porta (collocandosi sempre tra l’uno e l’altra, ossia sul così detto “lato forte”) e solo per terza la palla, perché, come si diceva una volta, “la palla da sola in porta non ci va”.

Il così detto modulo all’italiana prevede, una volta riconquistato il pallone, un contropiede il più rapido possibile, con la ricerca in verticale delle ali, del centravanti o del regista.

Lo schieramento della difesa è asimmetrico. Il terzino destro, infatti, è un secondo stopper che non si sgancia quasi mai e davanti a sé ha un ala (la così detta “ala tornante”) che va su e giù per la fascia, arrivando sul fondo e crossando, senza mai cercare la porta. Il terzino sinistro, invece, è detto “fluidificante” perché si sgancia e si sovrappone all’ala di riferimento che invece, spesso e volentieri, taglia verso dentro aiutando il centravanti (l’antesignano della seconda punta); necessita quindi di una marcatura più attenta (per questo il terzino destro non si sgancia).

Infine, la fase di rottura effettuata dalla linea mediana (che marca a uomo i centrocampisti avversari) impone non certo il pressing, ma l’intervento, il prima possibile, sul portatore del pallone senza farlo avanzare a palla scoperta ed evitando di portarselo a ridosso dell’area.

Il “libero”, termine probabilmente inventato da Gianni Brera, che di questa organizzazione di gioco diventerà l’alfiere, avrà un successo tale da essere poi utilizzato in molte varianti anche dagli zonisti (Liedholm schiera come libero un centrocampista lento che in fase di attacco torna in mediana e crea superiorità numerica. Sacchi lo tiene in linea, facendolo abbassare solo in certi casi. Scoglio lo lascia dietro facendolo scalare se qualche difensore avanza, nella “zona sporca” dell’Udinese).

La storia del catenaccio ha in realtà anche una preistoria, ossia una storia senza fonti consultabili perché si tratta di contesti non di primo piano e di fine anni trenta – inizio anni quaranta, dei quali non esistono filmati esaustivi da poter confermare l’attendibilità dei ricordi dei giornalisti dell’epoca. In base ai racconti, il primo battitore libero collocato dietro ai difensori risale a Mario Villini, giocatore, capitano e poi allenatore della Triestina tra gli anni 30-40. Villini a fine anni quaranta, riporterà il Venezia in serie A per poi allenare per un altro ventennio nelle categorie inferiori.

Durante il campionato del 1944, vinto dallo Spezia e poi vergognosamente non riconosciuto sia dalla Repubblica di Salò che dall’Italia democratica, fu proprio la formazione “campione” d’Italia a presentare una difesa larga con il libero staccato. Ad allenarla è Ottavio Barbieri, genovese e già vice di Garbutt proprio al Genoa che, oltre al libero, viene riconosciuto come il primo sperimentatore in Italia sia del sistema che del mezzo-sistema, prima di morire a soli cinquant’anni. La differenza tra il catenaccio embrionale di Villini e quello embrionale di Barbieri dovrebbe essere che il primo parte dallo schieramento del metodo (quindi due terzini stretti e dietro il libero), mentre il secondo appunto dallo schieramento del sistema (tre difensori e il libero dietro).

Il primo utilizzo ufficiale ed etichettato del catenaccio in Italia è quello della Salernitana approdata in serie A nella seconda metà degli anni quaranta sotto la guida di Gipo Viani. Nella massima serie esordisce il “Vianema”, primo embrionale catenaccio per limitare i danni contro gli avversari più forti. In serie B la Salernitana viene promossa con l’impianto difensivo del sistema: due terzini larghi sulle ali avversarie e uno stopper al centro sul centravanti; con due mediani di rottura vicini davanti alla difesa.

La leggenda racconta che tra il campionato di B e quello di A, in una partita amichevole di preparazione, l’idea sia nata in campo da una intuizione del veterano Valese (che per anni si disputerà con Viani la paternità dell’invenzione). Sessant’anni prima del falso nueve il centravanti della Salernitana viene fatto partire da dietro il centrocampo; in fase offensiva non dà punti di riferimento immediati agli avversari, mentre in fase difensiva fa marcare il centravanti avversario dal proprio, liberando lo stopper che quindi può raddoppiare sui marcatori fissi in difficoltà. Col senno di poi c’è molto anche della Honved di quegli anni.

Sembra, ma sempre in base a dei racconti, che negli stessi anni qualcosa di molto simile, anche se non sistematico, si veda in serie A con il Modena allenato da Alfredo Mazzoni. Pare infine che Valese all’inizio non obietti nulla circa la paternità del Vianema e che ne tiri fuori la polemica della nascita sul campo dopo aver sentito Viani raccontare un’altra origine (Viani racconta che l’idea del libero gli sarebbe venuta guardando una rete a strascico di pescatori che sotto ne ha un’altra per prendere i pesci caduti).

La Salernitana non si salva per un punto, ma tiene testa con onore a tutti. Viani fa tesoro dell’innovazione e qualche anno dopo lo ripropone riportando in serie A niente meno che la Roma. Negli stessi anni il catenaccio si afferma in Italia e in tutta Europa. Due le varianti principali: il “verrou” e il “fonema”.

Il “verrou” è il catenaccio svizzero, introdotto da Karl Rappen già negli anni trenta; lo porta anche ai mondiali di Francia schiantandosi contro l’Ungheria poi finalista (che sperimenta a sua volta il sistema utilizzato in Inghilterra fin dagli anni venti ma non ancora in continente).

Il “fonema” è il catenaccio italiano, che muta il nome (così come il Vianema) dal suo utilizzatore: il tecnico Alfredo Foni, che con il catenaccio farà vincere per due anni consecutivi il campionato all’Inter. Con il fonema nasce anche l’asimmetricità del futuro modulo all’Italiana: il primo libero nasce da un terzino destro (Blason) abituato al metodo e che mal si adatta alla posizione più larga del sistema e tende a giocare tra la linea difensiva e il portiere. Foni allora arretra l’ala destra a marcare l’ala sinistra avversaria e smarca Blason dai compiti di marcatura. Quindi l’ala sinistra resterà nel modulo all’italiana molto più in attacco (Pascutti, Riva, Serena…) e la destra meno, limitandosi ad andare sul fondo e crossare (Domenghini, Claudio Sala…).

La differenza tra il verrou e il fonema è nel modulo di partenza: il verrou è di formazione più antica (anni trenta); parte dal metodo e davanti alla difesa ha la mediana a tre. Il fonema ha i due mediani vicini davanti alla difesa perché nasce nei primi anni cinquanta e parte dal sistema che, anche in Italia, malgrado l’estrema resistenza metodista (Vittorio Pozzo fino allena la Nazionale fino al 1948), prende piede dal Grande Torino in poi.

In entrambe le varianti il catenaccio ha successo in tutta Europa, dalla Germania all’Unione Sovietica. Il libero compare anche nell’ermetico ed autoreferenziale calcio inglese per rimanerci fino alle soglie del 2000 (il Newcastle del grande Bobby Robson). Esso rimane tuttavia il simbolo del gioco all’Italiana perché per un ventennio, proprio nel nostro paese, farà il vuoto intorno a sé: le tre squadre italiane più famose vinceranno tutte le coppe internazionali. Con quei successi inizia la nomea del nostro gioco e la solidità delle nostre difese. Si fa largo il motto secondo cui il risultato perfetto è lo zero a zero (probabilmente inventato dalla medaglia d’oro olimpica Annibale Frossi, anche lui allenatore catenacciaro dell’Inter).

Dopo gli ottimi risultati, Alfredo Foni non viene confermato dal nuovo presidente dell’Inter Angelo Moratti, che, proprio come il figlio trent’anni dopo, prima di trovare la quadra vincente viaggerà a ritmo di due allenatori a stagione. Nel 1960 ingaggia Helenio Herrera, stregone franco-argentino che in Spagna ha vinto tutto. Herrera si sa vendere bene ed arriva a Milano con il suo bagaglio di novità (il riscaldamento, la preparazione atletica, l’organizzazione maniacale, la psicologia e le sostanze), tra le quali spicca la difesa a tre senza libero e con il portiere Buffon costretto ad uscite fino ad allora mai viste. Dopo le prime esaltanti vittorie la nuova Inter a trazione anteriore si schianta contro il piccolo Padova di Nereo Rocco, che di Mario Villini è amico ed ex compagno di squadra. Rocco, il libero, lo schiera eccome: anzi Blason, il primo libero d’Italia. Herrera è troppo intelligente per non capire in un pomeriggio che l’Italia non è la Spagna e fa quello che all’Inter era stato fatto da Foni dieci anni prima: sposta nel ruolo di libero il terzino destro, quell’Armando Picchi che molti considerano il miglior libero italiano di tutti i tempi.

Con Picchi nel ruolo di libero (e con gli acquisti poderosi del presidente) l’Inter di Herrera diventa campione d’Italia, d’Europa e del Mondo, esattamente come l’altra squadra di Milano, il Milan dove nel frattempo è approdato Nereo Rocco (il direttore tecnico è niente meno che Gipo Viani). Nella Lombardia degli anni sessanta il catenaccio riunisce i propri maestri e forma gli allievi (Cadè, Trapattoni, Radice, Bersellini, Bagnoli e Ottavio Bianchi). Il catenaccio, applicato dappertutto e, come detto, quasi sistematico da noi per venti anni, diventa l’appellativo un po’ dispregiativo del calcio difensivista e rinunciatario; con il tempo anche di brutto gioco, proprio per la sua partenza dall’organizzazione della difesa.

Occorre tuttavia precisare che la base (marcatura a uomo, libero dietro e gioco di rimessa) si presta nel tempo ad una infinità di varianti, in ragione delle quali non tutte le squadre che giocano con il catenaccio rinunceranno a giocare o faranno solo difesa e contropiede puro. Il Cagliari campione d’Italia di Manlio Scopigno, per esempio, è fedele all’impianto libero – stopper – mediano di rottura, ma manda i terzini a sovrapporsi sulle fasce, esattamente come la nazionale inglese campione del Mondo in quegli anni. L’Inter di Herrera e (un po’ meno) il Milan di Rocco e Viani non sono certo squadre che rinunciano ad attaccare (oltre tutto con il parco avanzato di cui dispongono) e così la Nazionale vice campione del Mondo di Valcareggi. Radice (per lo meno quello degli anni settanta) difende con il catenaccio, ma questo non gli impedisce di introdurre una forma embrionale di pressing (mutuato più dal basket a dire il vero, che dall’Olanda). Perfino il piccolo Ascoli di Mazzone, per un certo periodo, gioca un calcio offensivo con una mediana a tre dietro a tre attaccanti di ruolo. Non rinuncia ad attaccare nemmeno il Napoli di Maradona, Careca e Carnevale, che nel 1989 vince la coppa Uefa (mandando in rete a turno e per più volte tutto il parco difensivo). Trapattoni e Bagnoli, per quanto aperti alle innovazioni (saranno i primi ad evolversi con successo verso la marcatura mista, ossia difesa a uomo col catenaccio + centrocampo ed attacco a zona), manterranno la loro impostazione difensivista.

Il sacchismo temperato degli anni novanta (ossia l’influenza prepotente delle idee di Sacchi sugli allenatori italiani cresciuti con il catenaccio) ha guidato una migrazione graduale verso le difese a zona degli anni duemila. La migrazione è avvenuta proprio con l’applicazione della zona mista, nella quale progressivamente sono rimasti solo un paio di difensori in marcatura fissa e il libero da staccato è tornato in linea, per poi essere maggiormente coinvolto nel gioco fino a scomparire del tutto. Ciò non senza che gli ultimi epigoni del catenaccio sbagliassero il tiro, anzi: Eugenio Fascetti, fino all’ultimo convinto assertore addirittura della inutilità del pressing, imposta le sue squadre con le marcature fisse a tutto campo e con successo (7 promozioni e una infinità di salvezze).

L’ulteriore evoluzione della marcatura ci porta al modo nel quale oggi è per lo più intesa la zona. All’inizio (da Whittaker a Zeman) si difende a zona marcando all’interno della zona con i principi della marcatura a uomo: quelli della priorità visiva uomo – porta – palla. Per rendere l’idea, Scoglio utilizzava la metafora dell’orticello, secondo la quale ogni difensore ha in affidamento un orticello e a quello deve badare, marcando a uomo l’avversario che di volta in volta ci entra. Oggi invece al difensore, inserito nel più vasto insieme dei “difendenti”, non è chiesto più tanto di marcare l’avversario quanto di affrontarlo. È normale quindi che nel contesto appena descritto la copertura degli spazi sia fondamentale.

Prima, dentro la zona, si marcava con i principi della marcatura a uomo, mentre oggi dentro la zona si rispettano i principi dello spazio prima di tutto, distanza con i compagni di reparto e di catena. È infatti emblematico del cambio di rotta che per esempio uno dei massimi terzini della sua generazione, Ciro Ferrara, scriva (nella sua tesi di fine corso per allenatori) che al numero uno delle priorità visive di un difensore debba esserci la palla. Ferrara, da giocatore, vince uno scudetto e una coppa Italia come terzino sinistro fluidificante e una coppa Uefa, tre scudetti e tutte le coppe europee come terzino destro di marcatura. Difficile che Ottavio Bianchi, Marcello Lippi e Narciso Pezzotti gli abbiano insegnato quanto scrive.

Uscita dalla porta, la marcatura a uomo sta rientrando a tratti dalla finestra. Aggiornata ai tempi, senza libero e con il dovuto rispetto degli spazi, viene teorizzata ed applicata dieci anni fa dall’allenatore Giorgio Pivotto, che la ribattezza “marcatura a uomo elastica”: i difensori tengono la posizione in fase di possesso palla e di inizio della manovra avversaria, controllando solo a distanza il giocatore assegnato e stringendo la marcatura solo non appena gli avversari attaccano.

Pivotto, completamente inascoltato, bandisce una crociata contro la zona, evidenziando (anche correttamente) come un sacco di reti un tempo non si sarebbero prese.

Gli stessi concetti, negli ultimi anni, vengono ripresi con grande successo da due allenatori nostrani, Juric e Gasperini. I due si conoscono molto bene, uno è stato prima giocatore e poi vice dell’altro per molto tempo; anche se la virata dalla zona alla marcatura a uomo elastica, avvenuta nello stesso momento, sembra essere dettata da diverse esigenze contingenti (Juric cerca una strategia per limitare i disagi causati dalle cessioni nel suo Verona, mentre Gasperini cerca una variante per la difesa della sua Atalanta, della quale, dopo molti anni, gli avversari stanno prendendo le contromisure).

Per una volta è la montagna ad andare da Maometto, perché il successo di questi ultimi mesi dell’Aston Villa, possibile ennesima nuova sorpresa della Premier League, deriva (per ammissione esplicita) proprio dall’ispirazione dell’Atalanta e del Torino.

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