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Lo sviluppo nel tempo della zona in Italia

15 Dicembre 2023

In principio era Amaral. Anzi no. In principio era Sconcerti.

Perché Sconcerti nel suo saggio Storia del gol (un testo che dovrebbe essere studiato ai corsi per allenatori) spiega che la zona è ciò che viene naturale a chi gioca a calcio. L’esempio portato è di un gruppo di ragazzini che si trovano e improvvisano una partita in piazza o sulla spiaggia: a tutti viene naturale di schierarsi per coprire le posizioni, non di spartirsi gli avversari da rincorrere. E l’assunto è corretto nella sua estrema semplicità.

Poi c’è Amaral, perché la zona in Italia l’ha portata lui per primo; senza seguito, conseguenze e polemiche, ma è stato il primo. Nel 1962, dopo la doppietta del Brasile ai mondiali, la Juventus di Catella ne ingaggia il preparatore atletico, un omone con la testa rasata che ha fatto brillare i carioca con un lavoro a secco massacrante, e, oltre alle tabelle fisiche, si porta dal sud America due novità: il mezzo sistema (ossia il 4-2-4, che a Torino non è invenzione di Antonio Conte) e la zona appunto: quattro difensori in linea schierati abbastanza alti e che non tengono marcature fisse (almeno di base), ma marcano di volta in volta l’attaccante o l’ala che scende in quella posizione.

La Juve stecca le prime gare ma poi recupera, segna abbastanza e la difesa, per quanto alta e spesso presa in mezzo alle triangolazioni degli avversari, non subisce molti gol: secondo posto, Coppa delle Fiere e un leggero calo fisico nel girone di ritorno. L’esperimento tuttavia finisce qui e nessuno ricorderà quel campionato per la prima difesa a zona ma al massimo per il super-bidone milanista Germano dos Sales, antesignano dell’ “uragano azzurro” Fabio Junior.

Ma la zona esattamente che cos’è? Hanno ragione Alberto Zaccheroni e Adriano Cadregari quando spiegano che non si gioca a zona ma si difende a zona?

In teoria sì, perché la differenza tra la marcatura a zona e la marcatura a uomo è che nella prima i difensori tengono una posizione e marcano (o quanto meno affrontano) gli avversari che in quella posizione si trovano, mentre nella seconda ciascun difensore ha un avversario fisso e deve marcare lui e solo lui. Concretamente no, perché in Italia per lo meno (ma non solo, basti pensare all’Argentina di Carlos Bilardo), prima dell’avvento problematico della zona di cui si dirà, giocare a uomo non significava che ogni difensore avesse in consegna un attaccante avversario, ma che ogni giocatore fosse responsabile di un avversario.

In Italia, dagli anni ’50 ai primi anni ’80, si marca a uomo a tutto campo. Ciò ha dei vantaggi, come la formazione dei migliori difensori e dei migliori marcatori del mondo, da Facchetti a Bergomi, da Spinosi a Cabrini; ma anche degli svantaggi, perché se la differenza tecnica (e tattica) tra il marcatore e il marcato è troppo elevata, uno dei due rischia di passare una brutta domenica.

L’elemento psicologico di chi patisce troppo la superiorità dell’attaccante assegnato sarà decisivo per molti allenatori italiani che vireranno verso la zona. I primi sono Vinicio con il Napoli e successivamente con l’Avellino, e Marchioro con il Cesena (nel Como marcava a uomo e a tutto campo).

Il modello, oltre al solito Brasile, è l’Ajax e poi l’Olanda di Rinus Michels, delle quali l’assenza di marcature fisse è solo uno degli aspetti caratteristici innovativi (tra gli altri troviamo un pressing organizzato e uno scambio di ruoli fissi disorientante). L’assenza del battitore libero dietro la linea difensiva fa del portiere un protagonista per le uscite alle quali è chiamato. La difesa in linea si porta come corollario la trappola del fuorigioco, a volte procurato di proposito mentre altre derivante solo dall’estrema altezza della difesa.

In molti annoverano tra i pionieri italiani della zona anche Corrado Viciani, ma l’assunto è sbagliato. Viciani inventa il gioco corto molti anni prima di Van Gaal, Guardiola e De Zerbi, motivando la cosa con l’assenza di giocatori tecnicamente in grado di fare (e ricevere) in modo corretto un lancio di 50 metri; ma la sua Ternana e il suo Palermo difendono a uomo.

Negli anni ’70 giornalisti ed addetti ai lavori si accorgono del cambiamento e nascono due partiti: quello della zona, animato da allenatori per lo più giovani, e quello del gioco all’italiana, capitanato da Gianni Brera e dalle sue teorie eugenetiche, secondo cui gli italiani sono difensivi per mentalità e marcatori fissi per caratteristiche fisiche. La tesi breriana regge, perché nessuna delle squadre che giocano a zona riesce a vincere o a convincere. Vinicio arriva terzo con il Napoli, Marchioro fallisce la sua grande occasione con il Milan (che a metà stagione richiama in fretta Nereo Rocco), e Castagner (che di Viciani era stato l’assistente dieci anni prima) arriva secondo con il Perugia, senza perdere una partita. Tutto molto poetico, ma i campionati si vincono ancora con il catenaccio (Radice, Trapattoni, Bersellini).

Arrivano gli anni ’80, che cambieranno tutto per sempre, come dirà Gigi Del Neri. La zona in Italia è guardata con grande sospetto. Nei campi del sud però qualcosa si muove, anche se i risultati non premiano ancora il coraggio. Due realtà in particolare sono ricordate ancora oggi: il Bari dei baresi che sfiora la serie A e il Licata dei siciliani che vince la serie C2. Ai rispettivi timoni ci sono due giovani allenatori che peraltro ben si conoscono per aver lavorato insieme in passato nelle giovanili del Palermo: Enrico Catuzzi e Zdenek Zeman. Il primo crea un vero e proprio laboratorio pedagogico-sportivo, mentre il secondo arriva dalla Cecoslovacchia e innoverà la fase offensiva e la preparazione atletica, prima di giocarsi la carriera sparando a zero sul palazzo. Entrambi difendono senza il libero, con una difesa a quattro schierata negli spazi molto alta per accorciare sul baricentro alto della squadra, marcando a uomo dentro la zona.

Per sfondare ci vogliono i risultati e gli anni ’80 cambieranno tutto perché finalmente vinceranno lo scudetto due squadre che giocano a zona: la Roma di Liedholm e il Milan di Sacchi. In tutti e due i casi si tratta di difese impenetrabili che non subiscono un gol, in opposizione al luogo comune che accomuna zona, linea, fuorigioco e goleade in entrata e in uscita.

Di fronte ai risultati Brera (e i suoi sostenitori) non arretra di un millimetro: Liedholm è un episodio, Sacchi ha la squadra molto forte; però riconosce per lo meno l’esistenza del partito opposto, per i cui sostenitori conia il neologismo dispregiativo di “zonagri”. Pochi sono i giornalisti (Maurizio Mosca, Giancarlo Padovan) che si schierano apertamente con gli zonisti, che non sono e non saranno mai una scuola. Diversamente dal catenaccio, infatti, che in Italia ha una origine tecnica comune (Villini e Barbieri lo insegnarono a Rocco e Valese lo insegnò a Viani, e Rocco e Viani rielaborarono tutto insieme), la zona nel nostro paese non solo non ha manifesti o maestri comuni, ma non ha nemmeno degli esponenti che abbiano mai fatto fronte comune. Anzi. Ciascuno si è assunto non tanto la paternità, quanto la primogenitura di un certo modo di difendere, criticando lo scarso integralismo degli altri (inteso come l’utilizzo del libero e roba simile). Tutti (o quasi) criticano Sacchi, considerato quello al quale è andata bene: “La mia è la vera zona, la sua è una zona sporca” (Zeman), “E’ solo un geniale assemblatore delle idee altrui, soprattutto del sottoscritto” (Orrico), “Se Berlusconi avesse visto giocare il Pescara prima del Parma, sarei io l’allenatore del Milan” (Galeone).

La Roma di Liedholm vince il campionato nel 1983 ma ne sfiora altri tre. Vince tre volte la Coppa Italia, che allora era prestigiosa, e arriva in finale di Coppa dei Campioni perdendola ai rigori. Tutto ciò giocando a zona. Per capire l’origine della zona del Barone occorre capire il Barone stesso. Svedese, trapiantato a Milano, e poi nel basso Monferrato. Gigantesco, divertente, educatissimo. Mai un fallo, mai una parolaccia, mai la voce alta (nemmeno da allenatore) ma in grado di farsi capire ed obbedire con le sue battute, che da un lato stemperano e dall’altro feriscono. Sul gol di Turone romanisti e juventini ancora oggi si sbranano, ma lui, che è il diretto interessato, si limita a dire che la sua squadra è inesperta, smaliziata; per lo scudetto ci vuole più esperienza. Da calciatore vince tutto in Italia con il Milan e con la sua nazionale perde in finale i campionati del mondo contro Pelè e Garrincha. Da allenatore vince il campionato della stella con il Milan e poi ritorna sulla panchina della Roma, fortemente voluto dall’Ingegner Viola che, nel frattempo, da vice presidente è diventato il padrone assoluto.

Liedholm, che è superstiziosissimo e sceglie i giocatori anche in base al segno zodiacale (scorpioni gli attaccanti e bilancia tutti gli altri), è noto per dare massima fiducia ai giocatori, i quali lo ricambiano impegnandosi e dando il massimo nei momenti in cui sia necessario farlo. Per intendersi con il Barone e con il suo modo di fare bisogna avere esperienza, responsabilità e maturità, in sostanza bisogna essere vecchi quasi quanto lui. Le sue squadre sono tendenzialmente sempre composte di giocatori molto maturi (il suo Milan campione d’Italia annovera niente meno che Rivera e Capello, entrambi sono in panchina perché a fine carriera). Gli unici giovanissimi di cui si fida e che fa esordire sono giocatori destinati a diventare fuoriclasse (Antognoni, Ancelotti, Giannini, Maldini, Peruzzi). Questo fuori tema è rilevante, perché sarà proprio dalle sue rose-gerotocomio che verrà fuori la zona.

In genere un calciatore termina la carriera giocando più indietro e più al centro di come l’ha iniziata: invecchiando, per durare di più, i centrocampisti diventano difensori e gli esterni diventano centrali, andando logicamente a ricoprire quei ruoli nei quali si corre un po’ di meno. Ai tempi del libero l’ultima tappa era proprio quella, il ruolo che esonera il giocatore da marcature fisse e quindi dal rincorrere un numero di maglia, magari giovane e velocissimo. Anche Liedholm ha terminato la carriera in questo modo. Dei due centrali il più giovane fa sempre lo stopper e sta davanti, mentre il più vecchio fa il libero e sta dietro. Nella Roma del 1979 i due centrali sono Sergio Santarini e Ramon Turone…entrambi ultratrentenni (che per l’epoca significava fine carriera): quello più vecchio non c’è. Il Barone anziché metterli uno davanti e l’altro dietro, li mette vicini: se il centravanti arriva dal centro destra sarà il difensore più vicino a fare da stopper e quello più lontano ad andare dietro a far da libero, e viceversa; la zona è servita. Una zona lenta, impostata sempre sulle marcature all’antica, ma che non sono e non saranno mai più fisse, in modo da cercare di coprire anche gli spazi. Molto diversa da quella che in Italia porterà Eriksson, che gli succederà proprio sulla panchina della Roma e del libero (seppure non fisso) farà agevolmente a meno.

Di fronte al fatto compiuto (la Roma giocando a zona vince uno scudetto e ne sfiora altri due con Liedholm e uno con Eriksson), il partito del catenaccio segna il passo ma fino a un certo punto: alla fine Liedholm è un prodotto del calcio nostrano che, essendo eccentrico, ha saputo azzardare e gli è andata bene; quanto ad Eriksson, ha incantato tutti, ma lo scudetto lo ha vinto Trapattoni.

Nasce intanto un tipo di gioco che viene chiamato “zona mista” (o “marcatura mista”) che pesca un po’ di qua e un po’ di là: difesa a uomo con il libero dietro ma centrocampisti ed attaccanti schierati a zona e senza più marcature a tutto campo. La “zona mista” di zona ha solo il nome. In Italia trova il favore di tutti i grandi nomi della marcatura a uomo: vi si convertono Trapattoni, Bagnoli e gli allenatori della Nazionale Bearzot e Vicini. In vent’anni, tranne pochissime eccezioni di marcatura a uomo a tutto campo (il Bari di Fascetti, il Lecce di Cavasin), il catenaccio muterà pelle proprio nella zona mista.

Anche il pioniere Castagner ha la sua grande occasione nel 1984, quando gli affidano l’Inter di Altobelli e Rumenigge. La difesa a zona dura tre giornate, poi ritorna il libero a furor di spogliatoio. Castagner non si scompone e ricorda che anche Liedholm fa marcare a uomo Platini (d’altronde anche Herrera senza libero era durato tre giornate), comprendendo molto bene che la piazza e il peso contrattuale dei giocatori nella grande squadra siano cosa differente dalla provincia. Si accontenta pertanto di trasportare all’Inter gli altri suoi principi “olandesi”, come il pressing e il gioco d’attacco. Terzo posto e semifinali di Coppa Uefa e di Coppa Italia.

Nella seconda metà degli anni ’80, intanto, gli zonisti puri (sempre quasi tutti in polemica tra loro e con pretese di paternità assoluta) crescono e iniziano a vincere.

Il 1988 è l’anno della zona: Galeone che ha portato in serie A il Pescara, lo salva per la prima volta nella massima serie. Orrico (Carrarese) vince la serie C2. Cerantola (Licata) vince la serie C1. Maifredi (Bologna) la B. Sacchi lo scudetto. Queste ultime due figure sono emblematiche del prototipo del nuovo zonista che si affaccia perché sono due uomini nuovi: entrambi quarantenni e affascinanti nello stile, padani, uno nato a destra e uno a sinistra del Po. Entrambi fanno i fantini senza prima essere stati cavalli. Entrambi facevano i rappresentanti e nessuno gli dava credito; così si sono fondati una squadra propria dilettantesca per fare esperimenti, finché gli esperimenti sono riusciti e le squadre vere li hanno notati. Non sono per niente degli improvvisati, studiano, fanno la gavetta e scalano le serie. Arrivati in alto vengono comunque accolti come dei marziani. La stampa, al netto delle eccezioni riportate, li accoglie con finta curiosità e la latente speranza che gli vada male e finiscano per ritornare a vendere liquori e scarpe. Emblematico un episodio capitato a Sacchi nei primi mesi della sua esperienza al Milan: del giornalisti lo trovano a cena al ristorante e gli chiedono chi, la domenica successiva, avrebbe marcato Baggio della Fiorentina, se Filippo Galli, Tassotti o Colombo. Risposta: “tutti e nessuno dei tre, dipende da che zona Baggio occuperà”. I giornalisti se ne vanno dubbiosi e la moglie gli dice “ma almeno i giocatori ti capiscono?”.

Maifredi schiera la difesa in linea negli spazi e molto alta. Sacchi utilizza un libero (Signorini e poi Baresi) che è in linea e comanda la difesa a salire tutti insieme sui lanci verticali, mentre si sgancia in diagonale dietro al compagno di reparto quando questi affronta l’avversario che avanza palla a terra. Tutti e due pressano e propongono continue sovrapposizioni e scambi di ruolo. La differenza effettiva sarà solo legata alla sorte: Sacchi centrerà la grande occasione al Milan (grazie anche all’appoggio della società che lo sosterrà nei primi difficili mesi) salendo nell’Olimpo. Maifredi fallirà la grande occasione alla Juve (venendo stritolato nella lotta tra le tre fazioni interne alla società per ottenere la presidenza), sprofondando per sempre.

Gli anni ’90 iniziano con Sacchi chiamato a guidare la Nazionale. Ciò, di fatto, dividerà sempre di più le due fazioni, anche perché la Nazionale di Sacchi non vincerà, andandoci solamente vicina; ma soprattutto non divertirà e incanterà come il suo Milan. Il tempo per lavorare è ovviamente poco e lui compensa chiamando i suoi due blocchi (Parma e Milan); d’altronde anche Lobanovsky dieci anni prima aveva fatto la stessa cosa per compensare al limite del tempo. Ma ciò non basta.

Gli anni ’90 iniziano anche con la breve ma intensa toccata e fuga di un personaggio molto interessante. Il Corriere dello Sport nel 1991 titola: “L’orso di Carrara: papà della zona”, quando in realtà Corrado Orrico non è ne l’uno né l’altro, perché è nato a Massa e la zona ammette di utilizzarla ma non di averla inventata. Orrico è profeta in patria. In Toscana è più famoso di Valcareggi. Colleziona sei promozioni ma nel resto dell’Italia rimarrà quello che aveva allenato l’Inter. Nel 1991, Ernesto Pellegrini (ri)prova a portare la zona anche in casa Inter, affascinato dal gioco della Lucchese che l’anno prima sfiora il doppio salto. Orrico prende il posto di Trapattoni, che in cinque anni ha vinto con l’Inter in Italia ed in Europa. Troppe le innovazioni e tutte assieme: la zona, la gabbia, una preparazione atletica feroce, ma soprattutto la rigidità di tirare dritto per la sua strada, non comprendendo abbastanza che la grande piazza non è la provincia e non si possono prendere a martellate i giocatori che non ascoltano. La sua Inter perde solo tre partite su 16 ma non è né bella né brutta. Quando comprende che non lo sarà nemmeno nel girone di ritorno si assume tutta la responsabilità e si dimette.

La guerra degli sportivi attorno alla Nazionale di Sacchi è però l’ultimo vero ed acceso contrasto attorno alla zona. Negli anni ’90, accanto ai vecchi (Eriksson, Galeone) e ai nuovi zonisti puri (Zeman, Zaccheroni, Malesani, Novellino), l’approccio dei tecnici italiani cambia. I nuovi nomi (Capello, Lippi, Guidolin) possono non avere le idee di Sacchi e continuare a credere che sia meglio vincere prendendo un gol in meno all’avversario, anziché segnandone uno in più, ma Sacchi lo hanno osservato e spiato a lungo e certi principi li hanno presi a prestito. Ne nasce un gioco con il baricentro basso, fondato sui lanci e sulla tecnica individuale degli attaccanti, non bellissimo da vedere, ma efficace. I difensori iniziano ad essere schierati sempre di più negli spazi, limitando le marcature a uomo al massimo ai centravanti e ai fuoriclasse. Il risultato di questa assimilazione è positivo: Juventus e Milan stravincono tutto per dieci anni. I nuovi allenatori non sono più visti come dei santoni integralisti ma come degli esperti temperati che hanno appreso tutto quello che di buono si poteva e l’arrivo, di tanto in tanto, dei nuovi integralisti (Del Neri con la Ternana e poi con il Chievo, Sarri con l’Empoli) non viene più salutato come l’atterraggio degli alieni.

Nel frattempo le serie minori si riempiono di zonisti integrali che avrebbero molte cose da dire ma non tutti riescono ad avere la grande occasione (da Antonio Sala a Cadregari, dai fratelli Sanderra a D’Arrigo).

Si delineano finalmente le scuole, dal momento che i vecchi pionieri hanno degli allievi che sono diventati dei bravi allenatori (Varrella, Ancelotti, Tassotti, Donadoni e Rossi per Sacchi; Bucaro, Modica, Cangelosi, Di Biagio, Di Francesco e Marino per Zeman, Camplone, Gianpaolo ed Allegri per Galeone). Tutti questi allievi portano però delle innovazioni alla zona che gli è stata insegnata, dal momento che oggi in pochi marcano a uomo dentro la zona (lato forte etc..), ma si privilegia invece la posizione, la copertura dello spazio e la vicinanza ai compagni di reparto: c’è quindi una inversione delle priorità visive che non sono più: 1) uomo, 2) porta, 3) palla. La posizione della palla è al primo posto, posizionandosi e muovendosi di conseguenza.

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