“Tetro ginnasiarca, carceriere dello Spielberg”, in questo modo Gianni Brera, prima di morire, fa in tempo a etichettare Zdenek Zeman, oggi decano degli allenatori italiani, ma nel 1991 giovane allenatore approdato in serie A con il Foggia. L’epiteto è bello, significativo come nella natura di Brera, ma non coincide per niente: “ginnasiarca” lo aveva già utilizzato per Pincolini all’inizio dell’era Sacchi. Tetro probabilmente ci sta, perché Zeman, allora come oggi, è sempre impassibile, tipo Buster Keaton (anche se in privato dicono che scherzi e faccia battute); pur essendo palermitano di adozione viene sempre dall’est Europa, quella che nell’Ottocento ci viene descritta da Silvio Pellico e che nel Novecento ci si figura come il luogo segreto degli addestramenti durissimi e maniacali alla Ivan Drago.
Fatto sta che Zeman è in effetti un caso (quasi) unico di trainer moderno che, anziché diversificare i ruoli per competenze dei collaboratori, unifica in sé i due aspetti principali: quello dell’allenatore e del preparatore atletico di calcio.
Trainer moderno perché tra gli anni ottanta e novanta innova: predica un calcio d’attacco, importa (dall’hockey sul ghiaccio) verticalizzazioni e tagli e fa giocare la squadra a zona (che non impara – pare – da nessuno in particolare, se non da come lo facevano marcare da ragazzo a Praga).
Unificatore di ruoli perché dalla metà degli anni ottanta in poi (ossia da quando Zeman allena nel calcio professionistico) assistiamo alla crescita degli staff con l’aggiunta di moltissimi ruoli: dal preparatore atletico, il motivatore, lo psicologo e il match Analyst; lui il preparatore non lo utilizza perché lo è, anzi pare che gli piaccia pure di più far correre che far calciare gli atleti. Per inciso, Zeman ha un preparatore atletico che lo ha seguito in quasi tutti gli incarichi: si tratta del professor Roberto Ferola, fisioterapista di altissimo livello ed esperienza, che prima di lavorare con lui collabora con Zoff e Giuseppe Materazzi (la differenza è che all’interno dello staff la parte atletica parte sempre dal mister).
Questa anomalia deriva dalla storia pregressa di Zeman, che è stato un atleta ma non un calcatore professionista. Nipote del calciatore cecoslovacco più famoso (almeno in Italia), che allena e vince niente meno che con la Juve, ha un’esperienza multi-sportiva dalla quale attingerà nel momento in cui dovrà fare da preparatore alle prime squadre che allenerà. Zeman pratica diversi sport nel proprio paese (tra cui l’hockey sul ghiaccio e il calcio a livello giovanile). Arriva in Sicilia all’età di 22 anni e a Palermo insegna nuoto, gioca a pallamano e a pallavolo. Proprio in quest’ultimo sport un suo compagno di squadra gli chiede di venirlo ad aiutare ad allenare la squadra di calcio del suo paese, il Cinisi.
Non lo spaventa correre e far correre: il suo punto di partenza sono le tabelle di Emil Zatopek, suo amico di famiglia. Zatopek corre 35 chilometri al giorno; quasi una maratona. Allenamenti pieni di volume, come nella tradizione delle preparazioni del centro Europa. Correndo giorno e notte come Forrest Gump, Zatopek le medaglie le vince eccome. Se Vittorio Pozzo inizia come un velocista che a un certo punto si rende conto che è più divertente correre dietro ad un pallone, Zeman è prima un uomo di sport che un uomo di calcio. Quando inizia ad allenare non si dimentica mai che seppure un giocatore sia bravo a calciare o a difendere il pallone, deve comunque arrivarci per primo per poter far vedere i suoi numeri; questo assunto resterà per sempre il caposaldo del suo metodo di lavoro; tradotto: non lasciare la preparazione fisica ai preparatori (che con gli allenatori devono intendersi alla perfezione, se no sono dolori) ma occuparsene in prima persona e per prima cosa.
I presupposti descritti (la zona di provenienza, l’esperienza come istruttore di altri sport, Zatopek…) si traducono in concreto in una preparazione atletica massacrante, che non ha niente a che vedere con tutto quello che si è visto prima in Italia (importata da Amaral ed i due Herrera all’inizio degli anni sessanta). In precedenza vi erano solo gli esercizi ginnici (dal salto della corda, agli addominali, ecc.) separati per ruolo e solitamente messi ad inizio seduta, secondo l’impostazione “progressivo-parabolica” suggerita ad inizio anni cinquanta dalla Federazione, in ottemperanza (lieve) a quanto stava emergendo a livello europeo e sudamericano.
Amaral dura 15 mesi e le fatiche che impone ai giocatori non se le ricorda nessuno; dopo di lui arriva a Torino HH2 che sottopone i giocatori a volumi peggiori (stavolta la società lo difende). Herrera il mago, invece, introduce la preparazione a secco e molte altre cose, come il riscaldamento; il tutto, probabilmente in linea con le conoscenze dell’epoca, è abbastanza improvvisato. Certo, funziona, ma non perché si tratti di allenamenti fondati, ma solo perché le altre squadre non la fanno la preparazione; l’essersi mossi un po’ di più (o molto di più) in allenamento marca le differenze durante il campionato.
Finite queste esperienze, che non hanno un seguito e neppure dei seguaci, la preparazione atletica viene accantonata con il plauso di Gianni Brera, che ritiene il calcio differente da tutti gli altri sport e quindi non bisognoso di queste fatiche; soprattutto per gli italiani, pigri e non avvezzi a ad allenarsi come le popolazioni nordiche. Sembra assurdo, ma allora si ragionava così.
Negli anni settanta iniziano però lentamente a muoversi le cose. Due allenatori colti e pittoreschi, indubbiamente innovatori, studiano ed in autonomia introducono vari esercizi a secco. La differenza con la preparazione di Herrera è che questa volta le cose introdotte hanno senso eccome, dal salto degli ostacoli all’interval training. Sono Scoglio ed Orrico. Entrambi lavorano nella propria zona di origine (lo stretto di Messina e la Lunigiana) ed entrambi arriveranno in serie A con le loro sole forze, entrando nella memoria storica del calcio per cose diverse dalla preparazione (la teoria delle palle inattive, la gabbia, ecc.). In quegli anni nascono i preparatori di mestiere. Il primo è il Professor Enrico Arcelli, classe 1940, un medico che inizia a correre a quarant’anni perché si accorge di essere fuori forma e col fiatone quando va a raccogliere i funghi con la moglie. Diventato mezzofondista e massimo esperto della materia, alla fine degli anni settanta è preparatore atletico del Varese di Fascetti (con Marotta direttore sportivo). A Varese nascono le basi della preparazione atletica moderna, con l’introduzione del lavoro anaerobico di un certo tipo in aggiunta a quello aerobico. Gli allievi di Arcelli, tutti provenienti dall’atletica leggera, saranno i preparatori atletici del calcio italiano che sfonda negli anni ottanta e novanta: Sassi, Carminati, Neri e Pincolini, che nel 1987 segue il suo corregionale Sacchi da Parma a Milano per quella che sarà la rivoluzione del nostro calcio.
Dopo dieci anni di gavetta tra dilettanti e giovanili, Zeman approda nel calcio professionistico a metà degli anni ottanta, nei campi battuti e bruciati dal sole del sud della Sicilia. Inizia lì il suo calcio, fatto di squadre altissime, reparti vicini, passaggi verticali sovrapposizioni e tagli; di squadre che a un certo punto della stagione stanno così bene fisicamente “che potrebbero giocare due partite di fila”, come lui stesso dice tra la prima e la seconda giornata del campionato 2004-2005.
Gli inizi a Licata tuttavia non sono rose e fiori. Durante la prima preparazione nei boschi a un certo punto si gira indietro e trova che metà dei giocatori sono tornati al campo perché non ce la fanno a seguirlo. Tra la prima e la seconda stagione uno svecchiamento della rosa e un ritiro precampionato in montagna gli consentono la svolta: la preparazione a secco fa volare il Licata che vince la serie C2. L’anno successivo, in C1, sconfigge la Cavese, il cui vecchio capitano è Giuseppe Pavone, che smette di giocare e diventa il direttore sportivo del Foggia. E’ lui a segnalare Zeman a Casillo; il resto è storia troppo nota per essere ricordata.
Quella preparazione, entrata nell’immaginario collettivo, diventa nel frattempo molto famosa. In tanti, allora come oggi, storcono il naso per ragioni differenti. Nessuno o quasi l’ha imitata, ma i suoi contenuti hanno influenzato i preparatori e i metodi di lavoro tra gli anni novanta e i primi anni duemila.
Malgrado Zeman non faccia mai fare le stesse cose (vuoi perché anche il suo modo di lavorare si evolve, vuoi perché probabilmente non si trova mai nelle stesse condizioni concrete), la sua preparazione atletica estiva può comunque essere sintetizzata e coerentizzata.
Si tratta di poco più di un mese di lavoro con gli allenamenti a secco al mattino divisi in quattro fasce.
👉🏻 Nella prima c’è il fondo con tre o quattro corse lente al giorno per un totale di 10 km.
👉🏻 Nella seconda restano i 10 km al giorno, ma sotto forma di un 10×1000 (i famosi “millini”) e un recupero tra le serie pari al tempo di percorrenza.
👉🏻 Nella terza fascia ci sono esercizi di potenziamento muscolare (sul campo, non in palestra) prima senza sovraccarico e poi con il sovraccarico. In questa fase compaiono vari tipi di balzi (con uno o due piedi, sugli ostacoli o sui gradoni).
👉🏻 Nell’ultimo periodo si torna alle ripetute ma con distanze sempre più ridotte e a scalare (dagli 800 ai 400 metri, con tempi di recupero pari a quelli di percorrenza, per poi ridurre ancora, dai 300 ai 100 metri). Infine le ripetute su allunghi sempre più brevi (da 6×100 mt con recuperi inferiori al minuto tra una ripetizione e l’altra, accorciando progressivamente le percorrenze).
Nel periodo invernale, di solito in corrispondenza con le vacanze di Natale (quando ci sono), Zeman fa svolgere alla squadra un richiamo di forza molto duro per affrontare in scioltezza la primavera e la fine della stagione (tranne nel dicembre del 2001 quando gli viene proibito espressamente dalla dirigenza della Salernitana).
Una cosa su tutte lascia esterrefatti, ossia la quantità di concetti che vi sono nella sua preparazione: lavoro aerobico e anaerobico, potenziamento muscolare lavorando col peso corporeo e poi col sovraccarico, pliometria per il reclutamento delle fibre muscolari che gli altri esercizi non coinvolgono, forza e forza esplosiva, con un interval training che oscilla tra quello friburghese puro e quello americano (nel senso che i tempi di recupero non sono mai liberi ma nemmeno strettissimi).
Oggi questi concetti sono presenti nella preparazione atletica ma nella seconda metà degli anni ottanta il lavoro che Pincolini fa fare al Milan di Sacchi e poi alla Nazionale, per quanto di gran pregio, è ancora molto incentrato su aerobico e anaerobico.
I metodi di preparazione di Zeman influenzano quelli degli altri preparatori (con l’introduzione massiva dell’interval training e del lavoro di forza), proprio come la sua organizzazione di gioco influenza quella degli altri allenatori (nella primavera del 1991 sugli spalti di una partita del Foggia in serie B vengono visti Lazaroni, Salvemini, Sacchi e Lippi osservare ed annotare). La preparazione di Zeman viene vista come eccessiva ed integralista (alla pari del suo gioco sempre in attacco e mai in gestione del risultato) anche dagli addetti ai lavori. Non si fidano nemmeno alcuni tra i più quotati imitatori, che fanno fare le stesse cose dimezzando volumi e tabelle.
La preparazione atletica nel calcio, così come negli altri sport, di lì a poco (primi anni Duemila) prende una piega completamente opposta con quattro nuovi concetti: l’introduzione del lavoro integrato, la programmazione costante e non per picchi e, infine, la sempre maggiore importanza del recupero e del lavoro in palestra.
Il lavoro atletico integrato è il contrario del lavoro a secco. Consiste nello svolgere gli esercizi di preparazione usando sempre anche il pallone (integrando la preparazione fisica con l’allenamento tecnico e tattico). Sulla carta non è niente di nuovo, la tanto derisa gabbia di Orrico assolve proprio a quello scopo (per quanto Orrico sia stato pure uno degli inventori della preparazione a secco). Ma c’è un momento spartiacque nel calcio italiano che segna l’ingresso della preparazione integrata dalla porta principale per restarne fino ad oggi: l’assunzione nel 2001 di Jens Bangsbo alla Juventus – guru danese del metodo integrato – non per sostituire il “marine” Ventrone ma per affiancarlo. Allenatori e preparatori delle serie minori diventano i più interessati ad apprenderne i segreti, perché più si scende di categoria e meno tempo si ha a disposizione (l’integrato viene visto come una risorsa organizzativa).
La programmazione atletica volta ad avere un buono stato di forma costante nel corso della stagione, anziché per picchi, si fa largo non solo nel calcio ma in tutti gli sport “stagionali” (anziché avere una o due fasce temporali di competizione). Il principio è l’opposto di quello che ispira la preparazione per picchi, dove i carichi e i ritmi sono maggiori allo scopo di incamerare “benzina” e raggiungere il cento per cento della forma in un preciso momento. Oggi i preparatori professionisti sorridono al concetto del mettere “benzina” per tutta la stagione, organizzando il lavoro dei calciatori in modo da fargli raggiungere un livello costante per evitare i crolli che il sistema “a picchi” presuppone.
Il recupero e il lavoro in palestra diventano essenziali proprio quando si cerca di raggiungere uno stato di forma costante e non per picchi. Un concetto tira con sé gli altri due, poiché il recupero è essenziale per evitare sovrallenamenti e crolli. La palestra diventa un mezzo in più per raggiungere entrambi, uscendo dal solo utilizzo per scopi di riabilitazione ai quali è stata confinata per molto tempo.
Il modo di lavorare di Zeman innova ed influenza la preparazione atletica nel calcio, ma risulterebbe oggi giorno superato (in base a quello che si insegna ai corsi di abilitazione per preparatori atletici e nelle facoltà di scienze motorie).
Eppure c’è una considerazione che deve far riflettere. Con la mancata riconferma la scorsa primavera di Osvaldo Jaconi ed Edoardo Reja sulle rispettive panchine, Zeman diventa l’allenatore italiano più anziano in attività: 76 anni e mezzo. In (quasi) tutti questi anni di rivoluzioni velocissime nel calcio, lui propone gli stessi concetti e metodi di lavoro (in linea di principio) del suo Licata degli anni ottanta; e con successo, perché la forma fisica dei suoi atleti e il gioco delle sue squadre lasciano tutti ancora ammirati.
L’anomalia è proprio questa: Zeman è un allenatore “non giovanissimo” non solo all’anagrafe, ma anche nei metodi di preparazione (preparazione a secco e per picchi), nei metodi di allenamento (tecnica analitica e partite ombra) e nell’organizzazione di gioco (il 4-3-3 con la difesa a zona, i terzini che sovrappongono, le ali che tagliano e i passaggi verticali). Il punto è che funziona ancora oggi, nonostante i suoi metodi siano considerati desueti.
La verità sta probabilmente nel mezzo, nel senso che vi sono una serie di considerazioni che riequilibrerebbero il discorso.
Per esempio l’allenamento a secco non è del tutto in pensione, dal momento che uno sprint senza il pallone consente di andare più veloce e con una postura migliore, reclutando un numero maggiore di fibre rispetto allo stesso scatto eseguito con il pallone. Oppure, un taglio o una sovrapposizione ben fatti possono riuscire anche se l’avversario è preparato a sostenerli. O ancora, la preparazione per picchi procurerà atleti al 100% della forma nel mese del picco, ma siccome il picco ha una salita e una discesa gli stessi saranno al 80% il mese prima e al 80% il mese dopo, e al 70% ancora prima e il mese ancora dopo; il tutto avrà una media del 80% di forma per il periodo considerato, che su cinque mesi sarebbe un ottimo risultato anche per una preparazione non per picchi.
Il nodo di Gordio lo scioglie però Giovanni Galeone, un allenatore non particolarmente affezionato a Zeman, ma che ha il pregio di cogliere sempre perfettamente il punto essenziale delle questioni quando si parla di calcio. Nel 2011 Galeone afferma che Zeman gioca un calcio vecchio di venti anni, ma siccome in Italia siamo trent’anni indietro, lui risulta ancora avanti di dieci.